La presunzione d’innocenza è un principio giuridico secondo il quale un imputato non può essere considerato colpevole fino a che non sia provato il contrario. Un principio derivante direttamente dalla Dichiarazione dei Diritti Umani e che trova applicazione praticamente ovunque. Tuttavia, i “processi sportivi” che seguiamo tra televisioni e giornali, troppo spesso se ne dimenticano. Così anche i più piccoli sospetti possono trasformarsi in certezze di colpevolezza. Sono innumerevoli le occasioni in cui gli atleti hanno subito un determinato trattamento da parte di molte testate giornalistiche, che non hanno esitato a parlare di doping prima che la giustizia sportiva facesse il proprio corso. Ultimamente però la credibilità di diversi sport è stata fortemente messa in discussione e numeri casi sospetti sono poi stati confermati. Tra questi sport c’è anche il calcio. Un ambito in cui di doping se ne parla relativamente poco, perché spesso le positività dei giocatori sono legate a scarse quantità di sostanze che non fanno rumore. Eppure uno studio condotto dalla Uefa ha evidenziato che nei campioni di urina del 7,7% dei calciatori (con un test effettuato anonimamente a 4.000 atleti) che hanno partecipato alla Champions League dal 2008 al 2013, sono stati trovati valori di testosterone che andavano ben oltre il consentito.
Gli scandali del doping purtroppo si susseguono coinvolgendo campioni di primissimo piano. Oggi, è ormai consapevolezza diffusa che in molte discipline il ricorso al doping coinvolge gran parte degli atleti di vertice e altera i risultati delle competizioni. Tutto favorito molto spesso anche da allenatori e dirigenti, che guardano ai numeri e alle vittorie; e da una stampa che preferisce non vedere e non sentire.
CELEBRARE E NEGARE
Conseguenza è che in questo contesto si usi un linguaggio ambiguo e allusivo, per non chiamare le cose con il loro vero nome. Così il ricorso al doping viene camuffato come un’esigenza di riequilibrare gli scompensi determinati dall’allenamento e dalle gare e i dosaggi adottati vengono sempre descritti come “decisamente più bassi di quelli che usano gli altri”. Il doping viene praticato e sviluppato in un clima equivoco nel quale nessuno sa veramente come si comportano gli atleti di altri gruppi e questa indeterminatezza costituisce il pretesto e l’ambito per avventurarsi nell’uso di nuovi farmaci, nelle più ardite combinazioni di prodotti e in più elevati dosaggi. Nel frattempo, proprio come conseguenza di questo, il livello agonistico e i record sono cresciuti e l’esigenza di doversi misurare con un contesto di sempre più elevato livello determina una continua e crescente spinta verso tale pratica. Al doping si aggiunge la somministrazione di carichi di allenamento sempre maggiori, competizioni più impegnative, con l’obiettivo di essere sempre estremamente motivati nel raggiungimento degli obiettivi. Il tutto nascosto dietro al silenzio omertoso degli atleti, dei dirigenti e degli allenatori, che, nel momento in cui sono chiamati a rivelare i “segreti” dei loro successi, si chiudono e difendono ad ogni costo la propria credibilità sportiva. Proprio come negli anni in cui Diego Armando Maradona era sotto inchiesta per acquisti e cessioni di cocaina.
Si disposero sul giocatore del Napoli specifici e ripetuti test antidroga, che evidenziarono ogni volta la sua positività per la sostanza. Ma, contemporaneamente, il giocatore venne sottoposto a diversi controlli anti doping da parte della Federazione medico sportiva del Coni che ufficialmente risultarono sempre negativi. Quindi, o i test del Coni erano gravemente inefficaci… o la sua positività è sempre stata coperta.
ANCORA SERIE A
Di tutto questo se ne parla fortemente negli ultimi giorni, perché nella nostra Serie A non sono finiti (dopo il capitano del Benevnto, Fabio Lucioni) i casi di giocatori trovati positivi ai test anti-doping. Tra questi c’è il brasiliano del Cagliari Joao Pedro, risultato positivo all’idroclorotiazide (un diuretico) durante i test effettuati subito dopo la partita con il Sassuolo dell’11 febbraio scorso. Il giocatore è stato sospeso dal tribunale nazionale antidoping e la positività alla sostanza è stata confermata nuovamente nella partita successiva, quella tra Chievo e Cagliari del 17 febbraio. La prima reazione del Cagliari a seguito di quanto notificato dalla Prima Sezione del Tribunale Nazionale Antidoping è stata quella di una chiara sorpresa: “Il Cagliari calcio – si legge in una nota – appresa con stupore la notizia, auspica che venga fatta quanto prima chiarezza sulla vicenda, ponendosi a totale disposizione delle autorità preposte per la pronta risoluzione della questione e ribadendo la sua assoluta fiducia nella buona fede e correttezza del calciatore”.
Neanche il tempo di riflettere su quanto accaduto, che già si diffondeva la voce di un ulteriore caso (anche se un po’ diverso) nel nostro campionato. Si tratta del difensore della Lazio, Stefan De Vrij.
Per quanto riguarda l’olandese infatti non si tratterebbe di una notifica per “positività” o “non negatività” a un farmaco, ma solo di una questione procedurale sulla quale de Vrij dovrà fornire delle spiegazioni supplementari. Sostanzialmente il test anti-doping a cui si è sottoposto successivamente alla partita tra Lazio e Verona di lunedì 19 febbraio, valida per la 25esima giornata di campionato, si sarebbe sviluppato in due diversi momenti (due esami delle urine anziché uno, per raggiungere la quantità necessaria al regolare svolgimento dei test). Ciò avrebbe comportato l’obbligo di firma di due diversi documenti, ma – per errore o distrazione – ne sarebbe stato siglato solamente uno. Per questo motivo il giocatore dovrà fornire ulteriori spiegazioni.
In ambienti biancocelesti però si fa notare che il giocatore “deve solo dare spiegazioni burocratico-regolamentari”. Ora resta da capire se questo porterà a una sospensione come nel caso di Joao Pedro o se la posizione dell’olandese sarà chiarita al punto da permettergli di continuare a giocare.