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Emmanuel Adebayor, la storia di un diez atipico

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Emmanuel Adebayor, la storia di un diez atipico

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E’ stato allenato da Wenger e Mourinho; è africano; ha segnato più di 200 gol in carriera. Stiamo parlando di: Emmanuel Adebayor.

Quando si parla di Emmanuel Adebayor la certezza è una: non è un giocatore qualunque. La sua storia è ricca di episodi controversi, di improbabili acconciature e di macchine lussuose. Per raccontare Adebayor, molto probabilmente, ci vorrebbe un libro.

La sua storia parte da Kodjoviakopé, quartiere malfamato di Lomé, capitale del Togo. Adebayor da bambino ha problemi e non riesce a camminare. La madre cerca disperatamente una soluzione, girando il continente per farlo visitare dai dottori più competenti. Ma la ricerca non da esiti positivi. Allora ecco che irrompe nella vita del piccolo Emmanuel quella cosa che lo cambierà per sempre: il calcio. La madre è in chiesa a pregare insieme al figlio, disteso per terra. Un pallone fa il suo ingresso dalla porta principale, Emmanuel incredibilmente si alza e va a calciarlo. Chissà se questa storia sia effettivamente vera, ma la mistica dell’evento rimane.

CARRIERA

Adebayor cresce, gioca e a 15 anni viene portato in Francia, al Metz. Fa il suo esordio nel campionato francese a 17 anni, con la maglia del Metz segna 15 gol in due stagioni che gli valgono la chiamata nel principato di Monaco. Adebayor, a 19 anni, si ritrova già immerso nella sfarzosità della vita monegasca. Passano altre due stagioni, l’attaccante togolese gioca ma non esplode del tutto. Arsene Wenger lo nota, e decide di portarlo all’Arsenal. Nella stagione 2007/2008 Adebayor si consacra: 30 gol totali, di cui 24 in Premier League. Ecco, nel momento in cui sembra che Emmanuel stia finalmente sbocciando, qualcosa va storto, e nella stagione successiva non si ripete. Altro giro, altra corsa ed ecco che arriva un altro trasferimento, con l’attaccante togolese che viene acquistato dal Manchester City. Con i citizens non segna tanti gol ma uno in particolare verrà ricordato per sempre.

La partita è Manchester City-Arsenal. Adebayor segna, si fa tutto il campo di corsa e va ad esultare sotto i tifosi ospiti, che gli davano del giocatore finito e lo avevano offeso.

Successivamente i rapporti con Mancini si incrinano, così dopo l’esperienza vissuta nella metà blu di Manchester, Adebayor viene ceduto prima in prestito al Real Madrid e poi a titolo definitivo al Tottenham. L’esperienza in maglia blancos è breve ma intensa: Mourinho lo vuole, gli serve un attaccante di usato sicuro per far rifiatare i titolari. Colleziona 22 presenze in totale, condite da 8 reti, e vince una Copa Del Rey (primo trofeo in carriera). Non è una super stagione, ma quantomeno può essere il trampolino giusto per il rilancio.

Emmanuel fa ritorno in Inghilterra, pronto per iniziare una nuova avventura con il Tottenham. Alla prima stagione, sotto la guida di Redknapp, mette a segno 18 reti. Poi arriva l’ennesima discesa della carriera per Adebayor: André Villas Boas viene scelto come allenatore degli Spurs e non concede spazio all’attaccante togolese. Il progetto del tecnico portoghese fallisce, in panchina arriva prima Sherwood (con cui trova spazio e segna 13 reti) e poi Pochettino. La carriera di Adebayor sembra finita, è un giocatore che rimane ai margini della squadra e non riesce a rilanciarsi nemmeno con il trasferimento al Crystal Palace nella stagione 2015-2016. La storia di Adebayor è fatta da tanti bassi e pochi alti, ma il destino decide di concedergli l’ultima vera opportunità: il campionato turco con l’Istanbul Başakşehir.

LA TURCHIA

Dopo 6 mesi di inattività a Gennaio 2017 firma con il Başakşehir, la controversa “squadra del governo” di Erdogan, quarta di Instabul (le altre sono Galatasaray, Fenerbace, Kasimpasa e Besiktas). Al momento del trasferimento la squadra è sorprendentemente prima in campionato. Adebayor contribuisce alla causa ma non basta, il Besiktas finisce in testa e vince con 77 punti, con il Başakşehir secondo a 73. Tralasciando il sogno sfumato, Emmanuel ritrova la voglia e il divertimento di giocare a calcio, e anche una forma fisica invidiabile. In Turchia, per adesso, ha messo a segno 26 reti in 3 stagioni, contribuendo alla crescita e alla conferma del Başakşehir.

AFRICA, TERRA MALEDETTA PER ADEBAYOR

Riavvolgendo il nastro, è possibile tornare indietro e fare chiarezza su due momenti molto difficili vissuti dall’attaccante togolese in Africa. Il primo è datato 2010 quando Adebayor e i compagni di nazionale sono in viaggio in pullman verso l’Angola, dove si disputerà la Coppa d’Africa. Un gruppo di terroristi inizia a sparare contro l’autobus, 3 passeggeri muoiono, altri vengono feriti. Un episodio difficile da superare, ma che fortunatamente Adebayor si è lasciato alle spalle.

Il momento più difficile, però, arriva quando Adebayor discute con l’intera famiglia. Da quando si è trasferito a 15 anni gli ha sempre passato gran parte dei guadagni. Con l’aumentare degli stipendi ottenuti meritevolmente da Emmanuel, i familiari si sono trasformati in sciacalli, chiedendogli in continuazione sempre più soldi. Addirittura, è arrivato a parlare di suicidio. Grazie alla serenità ritrovata in Turchia Adebayor si è lasciato alle spalle anche questa vicenda, riducendo i contatti con la famiglia al minimo assoluto. Adebayor è tornato a sorridere e a 34 anni non vuole smettere di divertirsi.

Qui sotto la top 3 (in ordine casuale) dei suoi gol più belli.

 

 

 

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Chi è Delle Monache, il 2005 che sta brillando al Pescara

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Chi è Delle Monache

CHI È DELLE MONACHE – Dopo aver ottenuto il terzo posto nella stagione regolare, il Pescara si sta giocando i playoff per la promozione in Serie B. Uno dei calciatori che si è preso la scena negli ultimi incontri è l’attaccante classe 2005 Marco Delle Monache ,che, con una doppietta all’andata degli ottavi di finale contro la Virtus Verona e un assist nella sfida di ritorno, ha permesso ai biancazzurri di approdare ai quarti di finale, dove se la vedranno contro un’altra Virtus: la Virtus Entella. In questo approfondimento, scopriamo il giovanissimo talento che sta stregando tutti, anche l’illustre giornale inglese The Guardian, che l’ha inserito nella lista dei 60 migliori calciatori nati nel 2005.

CARATTERISTICHE TECNICHE

Si tratta di un’ala sinistra, che, all’occorrenza, può agire anche come seconda punta in un attacco a due, dotata di grande velocità, tecnica e dribbling. Il primo gol segnato contro la Virtus Verona mostra tutte le sue qualità: attraverso una corsa, partita da centrocampo, punta un difensore rossoblù. Nonostante sia stato raggiunto da altri due avversari, riesce con un numero a girarsi e accentrarsi e a sfoderare il destro, vincente, che ha battuto l’incolpevole Giacomel.

È un calciatore, che ama avere la palla tra i piedi e puntare i difensori avversari, per poi rientrare sul destro. Ma non solo. Questi si esalta negli spazi stretti, mostrando grandi qualità e sicurezza nell’esibizione propri mezzi tecnici. Insomma, ricorda una certa ala sinistra anch’essa passata nel Pescara: il nome di Lorenzo Insigne vi ricorda qualcosa? È ancora presto per fare certi paragoni, ma Delle Monache ha delle movenze, che ricordano proprio quelle dell’ex capitano del Napoli. Infatti, nelle giovanili, veniva chiamato “Piccolo Insigne“.

“È UN FUORICLASSE, IL GIOCATORE PIÙ FORTE DEL CAMPIONATO”

Nel postpartita di PescaraVirtus Verona, sono arrivati anche i complimenti dell’allenatore e presidente della squadra veronese, Luigi Fresco, che ha detto: “Il Pescara ha un fuoriclasse, secondo me il giocatore più forte del campionato, Delle Monache. Tu puoi organizzarti come vuoi, ma lui ti salta un paio di giocatori, poi magari fa l’assist o fa il tiro. La volta scorsa ha fatto due gol, oggi assist decisivo. Lì non ci sono facili soluzioni per un ragazzo così da marcare“. Se gli avversari lo osannano, ci pensa il tecnico della squadra abruzzese, Zdenek Zeman, invece, a far mantiene il ragazzo con i piedi saldamente ben piantati a terra: “Può essere più attivo in fase difensiva e offensiva, ma l’importante è che ha fatto gol”.

In questa stagione Delle Monache non ha trovato la continuità di prestazioni, che gli avrebbe permesso di far segnare numeri importanti: in 30 presenze stagionali (tra girone C del campionato di Serie C, playoff e Coppa Italia Serie C), questi ha fatto registrare 6 gol e 5 assist. Non parliamo di uno score eccezionale, ma le qualità ci sono tutte: basta solo aspettare il momento giusto per vedere esplodere definitivamente questo diamante grezzo.

IL FUTURO

Il cartellino del calciatore è di proprietà della Sampdoria, che la scorsa estate ha acquistato proprio dal Pescara (per 1,5 milioni) la talentuosa ala, vincendo la concorrenza di Sassuolo, Fiorentina e Borussia Dortmund. Conclusa questa operazione, quindi, il sodalizio blucerchiato ha deciso di lasciare il giovane prospetto in biancazzurro in prestito per un anno.

Il classe 2005 a fine stagione, quindi, tornerà alla base in Liguria, ma il suo futuro è molto incerto: le sue prestazioni hanno attirato le attenzioni di mezza Serie B e non solo; vista la situazione societaria non idilliaca dei genovesi, questi potrebbe essere oggetto di pretese da parte di club importanti nella prossima sessione di calciomercato. Insomma, un futuro ancora tutto da decifrare, ma che sarà sicuramente raggiante per uno dei migliori prospetti italiani del nostro calcio.

Fonte immagine in evidenza: La Casa di C

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Victor Osimhen, l’oro di Napoli

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Osimhen

Il Napoli, con dodici punti di vantaggio sul Milan secondo in classifica, inizia a intravedere il traguardo finale, quello del terzo Scudetto della sua storia. A metà campionato, con 50 punti raccolti, l’impresa è sempre più vicina. 19 partite per suggellare il vantaggio e continuare a dimostrare la grandezza e la bellezza messe in luce finora, a suon di prestazioni esaltanti. La squadra di Spalletti gioca il miglior calcio d’Europa insieme al Manchester City e l’Arsenal. Il gruppo, allenato in modo sublime dall’allenatore toscano, è stato il vero punto di forza in questa prima parte di stagione meravigliosa, il motore di una macchina quasi perfetta.

Titolari e riserve sono amalgamati perfettamente. Tutti rendono al massimo, indipendentemente dal fatto che i minuti a disposizione siano 90 o 10. Il mercato ha sorpreso chiunque, con innesti mirati e incredibilmente produttivi, calatisi immediatamente nel ruolo di protagonisti, come Kim e Kvaratskhelia, superbi nel sostituire due totem come Koulibaly e Insigne.

ARMA LETALE

Il perno, tuttavia, l’arma in più, l’uomo che ha fatto alzare il livello di competitività è, senza alcun dubbio, Victor Osimhen. L’attaccante nigeriano, dopo due stagioni in cui ha fatto vedere solo in parte le qualità che possiede a causa di continui problemi fisici, sembra essere definitivamente esploso.

In stagione ha già messo a segno 14 reti condite da 4 assist in 19 partite in tutte le competizioni, viaggiando a una media di un gol ogni 103′. Ha raggiunto la consapevolezza nei propri mezzi, ha sviluppato una maturità mai dimostrata fino ad ora, calandosi nella parte del leader tecnico e carismatico. Osimhen è sempre più decisivo.

Voltandosi indietro, è lecito chiedersi se gli infortuni patiti nei primi due anni in Italia lo abbiano fortificato, riuscendo a cavarne il meglio, soprattutto a livello mentale. Nel 2020-2021 è costretto a rimanere fuori dal campo per oltre due mesi a causa del Covid. Nel 2021-2022, invece, durante Inter-Napoli del 21 novembre, si rompe lo zigomo sinistro e l’orbita oculare in seguito a uno scontro terrificante con Skriniar. Inevitabile temere il peggio vista l’entità dell’urto. L’attaccante del Napoli torna a giocare solamente a gennaio, saltando quasi due mesi di stagione.

Il suo ritorno segna anche la comparsa della maschera, dalla quale non si è più separato. Da allora, Osimhen si è trasformato, come se quella maschera, oltre ad avere funzione protettiva, lo abbia reso un supereroe. D’altronde, nella cultura africana le maschere hanno un significato, spesso ultraterreno, sono il mezzo con il quale ci si può mettere in contatto con entità superiori, rappresentandole in terra.

UNO SPIRITO LIBERO

Indubbiamente, Osimhen sta giocando un calcio trascendente, istintivo, a tratti selvaggio. L’ex attaccante del Lille lotta, corre, cade, difende, trascinato da una forza interiore impetuosa. Aiuta i compagni, pressa a tutto campo, non molla mai.

La sua rete contro l’Ajax nella gara di ritorno della fase a gironi, quella del definitivo 4-2, ne è la prova lampante. Si lancia su una palla innocua, rubandola a Blind e appoggiando nella porta lasciata sguarnita da Pasveer, defilatosi per ricevere il passaggio del suo difensore. Un gol animalesco, conquistato con la grinta e la garra di chi vuole conquistare il mondo.

Vederlo giocare, per quanto possa peccare di grazia, è liberatorio. Osimhen non emerge per l’eleganza nei movimenti o nelle conclusioni. Il suo incedere è spesso goffo, disarticolato. L’impressione che si ha, a volte, è che non riesca a controllarsi, dominato da un pathos interiore inafferrabile, comprensibile a lui e a lui soltanto.

L’ORO DI NAPOLI

Probabilmente il gioiello partenopeo deve migliorare nella finalizzazione e nel gioco di squadra, imparando a gestire meglio alcune situazioni, facendo predominare la ragione e la freddezza all’istinto che lo contraddistingue. Spalletti lo sa e quest’anno, grazie al lavoro svolto insieme, si sono visti i primi progressi.

La vera forza del calciatore nigeriano, ciò che ha reso Osimhen il giocatore attualmente più importante e decisivo della Serie A, è la mentalità. Oggi ragiona da leader. In campo lo seguono tutti. I compagni lo ascoltano, lo abbracciano in massa quando segna, il suo atteggiamento è magnetico.

Lui ama Napoli e Napoli ricambia il sentimento. L’azzurro, ormai, scorre nelle sue vene. Se dovesse, si getterebbe tra le fiamme per onorare e difendere la maglia partenopea. Insieme a Di Lorenzo, capitano della squadra, è il perno di un gruppo che ha spiccato il volo, puntando il terzo Scudetto della storia del club.

Nonostante i soli 24 anni, sembra essere molto più maturo. I lunghi stop delle stagioni passate, le attese, il dolore e la paura ne hanno forgiato il carattere. Ora, dopo essersi assicurato l’amore della città di Pulcinella, Victor Osimhen vuole l’Italia.

 

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Chi è Olimpiu Morutan, il Brahim Diaz del Pisa

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Chi è Olimpiu Morutan

CHI È OLIMPIU MORUTAN – Trequartista, proveniente dalla Romania, piede mancino, altezza 1.73, talento cristallino e baricentro basso. A queste caratteristiche si potrebbe aggiungere uno spirito da trascinatore e le qualità di uno che può vincere partite da solo. No, non si sta parlando di Gheorge Hagi. Senza voler scomodare il Maradona dei Carpazi, c’è qualcuno che potrebbe ripercorrere le sue tracce: si tratta di Olimpiu Morutan.

Le qualità, però, sono davvero queste e sono le stesse del Regele (in italiano “re”). La strada da percorrere è ancora molto lunga, ma il classe 1999 può essere il degno erede di Hagi in patria. Gică illuminava i campi su cui metteva piede. Pelé l’ha inserito nel FIFA 100, la lista dei 125 giocatori viventi più forti al Mondo, ha vinto sette volte il premio di calciatore rumeno dell’anno ed è stato nominato calciatore rumeno del secolo.

Tanti riconoscimenti, probabilmente irraggiungibili per il trequartista del Pisa, ma i tratti in comune enunciati prima non possono essere dimenticati.

SORTIT

La parola è presa dal rumeno, ma si capisce benissimo il campo semantico di riferimento. Quel “sort” iniziale è inequivocabile, infatti significa “predestinato, prescelto”. Si potrebbe definire così la carriera di Morutan. Nasce il 25 aprile 1999 a Cluj-Napoca, una città molto variegata e ricca di storia, oltre che essere la capitale non ufficiale della Transilvania. La vivacità della cittadina è presente anche nel mancino del Pisa, che riesce subito a mettersi in mostra per le sue doti con il pallone.

Muove i suoi primi passi nel settore giovanile dell’Universitatea Cluj, squadra con cui esordisce a soli 16 anni in Liga II, il secondo livello del calcio rumeno. Nella stagione successiva, viste le qualità e l’esordio, che facevano di lui un predestinato, perfeziona il suo passaggio al Botosani, nella prima divisione rumena.

Da qui in poi, difficilmente uscirà dal campo e riuscirà, grazie a questa continuità, a mettere in mostra tutto il suo bagaglio tecnico e artistico. Nell’annata 2017/18 riesce anche a incrementare i suoi numeri, trovando 2 gol e fornendo 5 assist per i compagni. Tutto ciò gli permette di attirare le attenzioni di una squadra sempre molto attenta ai giovani: la Steaua Bucarest.

Arrivato nella squadra più importante del paese, riesce a consacrarsi partita dopo partita. Un infortunio al legamento crociato all’inizio della stagione 2019/20 rallenta il suo percorso di crescita, ma sarà l’annata successiva a renderlo il grande talento di cui tutti parlano. Nel 2020/21 realizza 8 gol e fornisce 15 assist in 36 presenze e, oltre all’esordio in Nazionale, mette in bacheca la Coppa di Romania e la Supercoppa.

Da qui, attirerà le attenzioni del Galatasaray. I turchi lo strappano per 5.7 milioni di euro e si lega al club per 5 anni. Ne basterà uno, però, per convincere il Pisa ad acquistarlo.

CHI È OLIMPIU MORUTAN: LEADER DEL PISA

Dopo un breve periodo di adattamento, coinciso con il peggior momento del Pisa in stagione sotto la guida di Maran, Morutan è riuscito a mettere in mostra tutto il suo repertorio. Non è un caso se la squadra toscana non perde dal 10 settembre. Il trequartista rumeno si sta perfettamente adattando agli schemi di Luca D’Angelo e riesce a svariare molto sulla trequarti, lasciando pochi riferimenti ai difensori.

Fino ad ora, in 17 presenze ha trovato 4 gol e 7 assist, numeri molto interessanti. Oltre a questo, però, la sua caratteristica principale sembra essere la leadership: i compagni sanno di potersi affidare a lui nel momento del bisogno. All’esordio nel campionato cadetto, condito da due assist, è seguita una trasformazione su calcio di rigore decisiva per il pareggio con il Como. Non è da tutti presentarsi dal dischetto dopo due partite, ma la conclusione sotto l’incrocio dimostra il perché di questa sicurezza.

Inoltre, il fatto interessante è che sta trovando questa grande continuità di rendimento in Serie B. In un campionato storicamente fisico e ricco di contrasti duri, Morutan sta riuscendo a prendersi la scena grazie al suo baricentro basso che gli permette di prendere colpi ma di restare comunque in piedi. La sua tecnica cristallina, abbinata a questa qualità, gli consentono di non perdere quasi mai il controllo del pallone.

MORUTAN VISTO DAL VIVO

Quando Morutan è in campo, ci mette davvero poco per farsi riconoscere. Innanzitutto perché, in un calcio che sta diventando sempre più fisico, resta uno dei pochi a non raggiungere nemmeno il metro e settantacinque. Soprattutto, però, perché in Serie B ci sono davvero pochi calciatori con la sua abilità tecnica e la sua capacità di muoversi nello stretto.

Queste due abilità disorientano i difensori avversari, costretti spesso a spendere il giallo per fermare le sue accelerazioni. Nel match tra SPAL e Pisa è caduto nella sua trappola Biagio Meccariello, che non ha resistito alla tentazione di rifilargli un calcione, prendendosi l’ammonizione.

Durante la stessa partita, Morutan è stato il faro della sua squadra nel momento di difficoltà. La difesa degli estensi riusciva a respingere bene gli attacchi provenienti dall’alto, con i palloni lanciati sulla testa di Torregrossa prima e di Gliozzi poi. Morutan, invece, si intrufolava tra le linee e riusciva spesso a ricevere la palla già girato verso la porta. In questo modo, riusciva senza problemi a puntare i difensori e a superarli, per poi creare diversi pericoli.

Per caratteristiche fisiche, tecniche e atletiche ricorda molto Brahim Diaz del Milan. Mancino con baricentro basso e grande qualità, in grado di scompaginare con un dribbling le difese avversarie. Per questo, bisogna aspettarsi molto da Olimpiu Morutan, il “sortit”.

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Mario Kempes, l’eroico Diez di Argentina ’78

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Il Numero Diez è il simbolo di tutti quei giocatori che, grazie alle loro magie e ai loro numeri irripetibili, hanno fatto innamorare milioni e milioni di tifosi sparsi per tutto il mondo. Non è da tutti scegliere questo numero, la pressione e il peso che porta è notevole, in quanto chi lo indossa decide di prendersi la responsabilità di guidare il proprio reparto offensivo. Il Sud America, in particolare Argentina e Brasile, è fertile terra per la nascita di questi talenti unici. Per la Seleção sovvengono i vari Pelè, Rivellino, Zico, Rivaldo, Ronaldinho, Neymar e molti altri; invece l’Albiceleste vanta, su tutti, Maradona e Messi. Questi due giganti inarrivabili, però, mettono spesso in ombra altri Diez argentini, come Mario Alberto Kempes, l’uomo della prima storica vittoria argentina di un Mondiale.

LA GIOVENTÙ

Kempes nasce il 15 luglio 1954 da una famiglia di umili origini a Bell Ville, città a 500 km da Buenos Aires, situata nella provincia di Cordoba. Il padre oltre che a svolgere il mestiere del carpentiere, fu anche un calciatore dilettantistico e, affascinato e colpito da ciò, il giovane Mario, all’età di 9 anni, iniziò a muovere i primi passi nel mondo del pallone. Il suo talento, nettamente superiore a quello degli altri ragazzini, è presto notato e, già a 13 anni, veste il rossoblù della più prestigiosa squadra locale, il Talleres de Bell Ville. Nel 1972 cambia casacca e si trasferisce all’Instituto di Cordoba. La cessione avvenne con un curioso retroscena, ovvero una scommessa tra i presidenti delle due squadre coinvolte, Tossolini del Talleres e il biancorosso Petraglia. Il primo, sicuro delle abilità del suo giovane talento, affermò: “Se alla prima amichevole non segna entro 15 minuti te lo cedo gratis, se invece segna entro i 15 minuti fissiamo un prezzo per il ragazzo”. Finale della storia? Kempes segnerà il primo dei suoi quattro gol in quella partita al 14’ e sarà ceduto per 3 milioni di pesos.

IN RAMPA DI LANCIO

Il palco offerto dall’Instituto, ormai, era troppo piccolo per Kempes, che stava diventando un importante attore della scena sudamericana e che, ben presto, avrebbe varcato le più importanti scene mondiali. Infatti, il soggiorno a Cordoba durò solo un anno e, finita la stagione 1972-1973, si trasferì al Rosario Central. Cambia la maglia, ma non cambia la sostanza. L’esordio arriva il 22 febbraio 1974 contro il Gimnasia la Plata e, in quella stagione, segna 25 volte nel Campionato Nacional, laureandosi capocannoniere della competizione. Kempes, con la sua velocità prorompente e il tiro devastante, incanta tutta l’Argentina, tanto da guadagnarsi il soprannome di El Matador. Nessuno non può non notare e restare indifferente di fronte alle sue prodezze, ha convinto tutti anche il CT Vladislao Cap, che decide di convocarlo per il Mondiale di quell’anno tenutosi in Germania Ovest. Il popolo argentino nutriva le migliori aspettative ed più che mai era colto da un gioioso fremito, dato che la propria nazionale non si qualificò all’edizione di Messico ‘70, non essendo andata oltre il pareggio contro il Perù di Cubillas.

Il girone 4 era formato da Argentina, Polonia, Italia e Haiti. L’inizio non è assolutamente dei migliori, infatti dopo appena 9 minuti gli europei conducono per 2 a 0. Invano l’Argentina tenterà di riaprire il match per 2 volte, di cui una grazie a un assist di Kempes in favore di Heredia. Il cammino dell’Albiceleste prosegue con un pareggio contro l’Italia per 1 a 1 e una schiacciante vittoria per 4 a 1 ai danni di Haiti, che consentono ai sudamericani di passare il girone come seconda. I pessimi presagi iniziali furono confermati dalla fase successiva, nella quale la squadra di Cap venne surclassata dalle rivali, ovvero Paesi Bassi, Brasile e Germania Ovest. Johan Cruijff e compagni impartirono una lezione di calcio; infatti, la partita terminò con un sonoro 4 a 0, dove i sudamericani, a stento, tirarono una sola volta verso la porta avversaria.

Le due partite seguenti mostrarono nuovamente l’assenza di gioco da parte dell’Argentina, che, però, riuscì almeno a totalizzare un risultato utile, ovvero il pareggio contro i tedeschi grazie alla magistrale prestazione del portiere Fillol e al gol di Houseman, nato da uno spunto di Kempes. Terminata l’infelice spedizione, furono apportati dei cambi, su tutti l’esonero del CT, ritenuto come il maggior colpevole della disfatta in Germania. Una volta tornato in patria, però, nella mente del Matador non balenava minimamente l’idea di abbattersi e continuò a trascinare il Rosario Central a suon di gol.

VALENCIA

Le prestazioni, i gol e il titolo di capocannoniere del Campionato Metropolitano del 1976 sono davanti agli occhi e sulla bocca di tutti. Chiunque veda giocare Kempes si innamora delle sue qualità e ne rimane stupito, in particolare a provare ciò è la leggenda Alfredo Di Stéfano, all’epoca allenatore del Valencia. Così, dopo 100 partite e 89 reti messe a segno per le Canallas (“canaglie”), vola in Europa, alla corte della storica leggenda del Real Madrid. Se il primo anno è più di ambientamento al calcio spagnolo, i seguenti sono il simbolo della definitiva consacrazione, Kempes, infatti, è il Pichichi (capocannoniere della Liga) del ‘77 e del ‘78. Nel 1979 trionfa in Coppa di Spagna e nel 1980 può finalmente vincere qualcosa a livello europeo con i Murcielagos (pipistrelli), ovvero la Coppa delle Coppe. La finale contro l’Arsenal si disputò a Bruxelles e terminò solo ai calci di rigore, scaturito da un punteggio rimasto fisso sullo 0 a 0 fino al 120’. Ad aprire la serie fu proprio Kempes, che, presa la solita rincorsa fino fuori dall’area, calciò con forza il pallone. Questa volta, però, il mancino non fu letale, infatti la traiettoria fu pressoché centrale e venne intercettata dal portiere dei Gunners, Patrick Jennings. Il Valencia, nonostante ciò, vinse l’incontro, grazie alle parate di Carlos Santiago Pereira su Brady e Rix. Questa vittoria comportò anche la possibilità di giocarsi un altro trofeo intercontinentale, ovvero la Supercoppa Europea. Gli spagnoli affrontarono nuovamente una squadra inglese, il Nottingham Forrest di Clough, e, come accaduto qualche mese prima, alzarono la coppa al cielo.

SULLA VETTA DEL MONDO

Le prime due stagioni in Spagna diedero occasione a Kempes di apprendere nuove tecniche e schemi, che gli servirono per migliorare fino a diventare un vero e proprio cecchino letale, come oggi è noto a noi tutti. Nonostante ciò, il palmarès era piuttosto scarno, in quanto aveva vinto diversi riconoscimenti individuali, ma neanche un trofeo. Nel 1978, però, l’occasione si presentò alla porta ed era troppo ghiotta per non essere sfruttata. In quell’anno, infatti, i Mondiali si sarebbero tenuti in Argentina. Con l’esonero di Cap nel ‘74, il ruolo di commissario tecnico fu affidato a César Luis Menotti, che rivoluzionò lo stile di gioco e spinse Kempes ad accettare il peso che tutti i bambini sognano: la maglia numero 10. Era iniziata una nuova era. I presupposti per fare bene e per arrivare in fondo alla competizione c’erano e, inoltre, l’Albiceleste non poteva permettersi di deludere nuovamente i tifosi, era in debito dopo l’esclusione di 8 anni prima e la pessima figura fatta in Germania. La strada non era in discesa, tutt’altro, infatti i padroni di casa furono sorteggiati nel girone con Ungheria, Francia e Italia.

In queste prime tre partite Kempes non lascia il segno come previsto, le discrete prestazioni, complici anche le avversarie, non gli permettono di esprimere quanto gli era nelle corde. Dopo le prime due vittorie, entrambe per 2 a 1, contro Ungheria e Francia, a far vacillare le sicurezze degli argentini furono gli Azzurri, che trionfarono grazie alla rete di Bettega. Con 4 punti totalizzati, l’Argentina passò come seconda e fu sorteggiata nel secondo girone con Polonia, Brasile e Perù. Ora le cose erano serie, era giunta la fase finale, le ultime tre partite che avrebbero deciso chi si sarebbe giocato la partita valida per l’assegnazione del trofeo tanto bramato. La prima partita era contro l’unica nazionale europea, la Polonia di Boniek e Lato. In questa partita Kempes confermò il motivo del suo soprannome, 2 reti segnate, la prima al 16’ e la seconda al 72’; decisivo anche il rigore parato a Denya da parte di Fillol. I fantasmi del passato, della sconfitta per 3 a 2 della passata edizione erano scacciati e ora l’Albiceleste era pronta ad affrontare i rivali di sempre i Verdeoro, che avevano già vinto la competizione per 3 volte. La partita terminò a reti bianche, il passaggio del turno era ancora conteso tra tre nazioni, Argentina, Brasile e Polonia, ma solo una avrebbe potuto avanzare fino alla finale. Le due sudamericane erano entrambe a quota 3 e, nel caso avessero vinto entrambe, il passaggio del turno sarebbe dipeso dagli scontri diretti, invece le Aquile bianche dovevano battere la Seleção e sperare in un miracolo da parte del Perù. La nazionale di Menotti, però, non avvertì alcun tipo di pressione in quella partita, e uscì vittoriosa dal campo con il risultato di 6 a 0, grazie alle doppiette di Kempes e Luque e ai gol di Tarantini e Houseman.

L’ultima squadra da battere per aggiudicarsi il titolo erano i Paesi Bassi. Gli Oranje che nell’ultima edizione avevano annichilito la nazionale argentina, rifilandole un sonoro 4 a 0. Il Monumental, con spalti gremiti di tifosi muniti di striscioni, bandiere e coriandoli, è la cornice designata a offrire un match che farà la storia del calcio. Verso la fine del primo tempo, Kempes mette a segno la sua quinta rete nel torneo, in seguito a una veloce incursione nell’area di rigore avversaria. Nel secondo tempo la partita va verso un’unica direzione, l’Olanda domina in lungo e in largo, tantoché trova la via del gol grazie al colpo di testa del subentrato Dick Nanninga all’81’ e, 9 minuti più tardi, colpisce il palo, sfiorando una  clamorosa vittoria in extremis. I supplementari decideranno chi, per la prima volta nella sua storia, sarà campione del mondo. Nei supplementari non succede nulla di eclatante, fino al 105’, quando una mischia favorisce Kempes che scaraventa il pallone in fondo alla rete. Gli argentini archiviano definitivamente la pratica al 115’, grazie alla rete di Bertoni, servito dal Diez. Il capitano Daniel Passarella può alzare la coppa al cielo davanti ai suoi connazionali, che non possono più contenere la gioia e, in un clima patriottico, abbandonano i pensieri legati alle sofferenze patite per festeggiare.

GLI ULTIMI ANNI

Nel 1981, lascia la Spagna e torna in Argentina, al River Plate, dove giocherà nello stadio che 3 anni prima gli ha regalato il trofeo più importante. Coi Millonarios vince il Campionato Nacional, interrompendo l’egemonia del Boca Juniors di Maradona. Terminata la stagione in Argentina, gli infortuni iniziano a colpire ripetutamente Kempes, che, di conseguenza, non riesce a essere incisivo come un tempo. A causa dei problemi finanziari del club argentino, torna in Spagna per 4 anni, 2 anni al Valencia, diventata squadra da metà classifica, e gli altri 2 all’Hércules, neopromossa in Liga. Partecipa, senza particolari alti, anche a Spagna ‘82, con la maglia numero 11, in quanto, di sua volontà, aveva consegnato la Diez a Diego Armando Maradona. In seguito alla retrocessione dell’Hércules, milita in diversi club austriaci: il First Vienna, il St. Pölten e, infine, il Kremser. Dice addio al calcio 3 volte. La prima nel 1993 con un’amichevole tra Valencia e PSV e nel ‘95 gioca, sempre un’amichevole, tra Rosario Central e Newell’s Old Boys. Il ritiro definitivo avviene l’anno seguente, nel 1996, a 42 anni, quando ricopriva il ruolo di allenatore-giocatore per il Pelita Jaya, in Indonesia. Appesi gli scarpini al chiodo, intraprende in un primo momento la via dell’allenatore e, in seguito, quella del commentatore sportivo.

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