L’International Champions Cup arriva quest’estate alla sua sesta edizione. Nata infatti nel 2013, questa competizione è diventata ormai un must estivo per tutti gli appassionati che, in drammatica astinenza, cercano assennatamente partite di prestigio da seguire. La ICC mette di fronte i migliori club al mondo, permettendo ai fans di tutto il globo, dall’America alla Cina, di osservare da vicino i migliori campioni sulla terra. Una summa della crema del calcio mondiale, una fonte incredibile di introiti ma allo stesso tempo una prima grossa fatica stagionale. L’International Champions Cup è tutto questo, è in pratica la sintesi perfetta dell’evoluzione che il mondo del calcio ha vissuto negli ultimi anni.

PANEM ET CIRCENSES
La tendenza alla spettacolarizzazione che negli ultimi anni ha contrassegnato la scena calcistica emerge lampante nella ICC. E il motivo è semplice: questa competizione si rivolge a degli spettatori, non a tifosi. Qui, nei territori lontani dai luoghi di nascita del football, si perde la dimensione intima di questo sport, quella ritualistica e quasi religiosa. Qui non c’è la stretta connessione tra singolo e comunità, dove per comunità s’intende l’insieme di squadra e tifosi. Qui ci sono solo dei consumatori, che vanno allo stadio per ammirare uno spettacolo e in quanto tale il calcio si vende, in ogni aspetto. Dalle partite, dimensione più immediata, al merchandising fino addirittura agli incontri coi calciatori. Tutto diventa occasione di lucro, tutto diventa un guadagno immediato.
La visione aziendalistica della società è alla base dunque della scelta di intraprendere queste tournée massacranti, ma estremamente redditizie. Il culto dello spettacolo poi attira frotte di appassionati, o comunque anche solo interessati. Non a caso la ICC si dipana tra America e Asia, paesi non abituati al grande calcio e che pur di rendersi protagonisti, anche solo per due-tre settimane, sono pronti a mettere in palio cifre importantissime. E le squadre gongolano, all’idea di guadagnare senza offrire nient’altro che semplice spettacolo.
Una concezione molto lontana dalla nostra, eppure molto diffusa da sempre. Basti pensare all’idea con cui sono nati i giochi olimpici nell’Antica Grecia, agli immensi spettacoli che venivano allestiti nelle arene romane. “Panem et Circenses” diceva Giovenale. Per conquistare le masse basta un po’ di pane e la spensieratezza del divertimento. La ICC racchiude alla perfezione questa massima, un po’ di pane alle squadre, molto divertimento al pubblico e tutti, alla fine, sono estremamente soddisfatti.

A QUALE PREZZO?
Va bene lo spettacolo. Vanno bene gli introiti. Sono ottime le possibilità di espansione del brand. Ma tutti questi benefici hanno un lato oscuro, un prezzo da pagare? Come detto, queste tournée sono spesso massacranti, lunghe ed estenuanti. Viaggiare dall’altra parte del mondo, cambiare 2-3 città in poche settimane, non fermarsi praticamente mai. Lo scotto alla fine è alto. Il lavoro sul campo viene enormemente sacrificato in nome di questo spettacolo totalizzante. Tra spostamenti, eventi e partite il tempo per la classica preparazione si riduce al minimo. Il lavoro pesante si svolge ormai in una settimana- dieci giorni, nel migliore dei casi, prima di salpare per i lidi dorati. E, alla fine di tutto, quanto questo fattore incide sulla stagione?
In teoria molto. Lavorare a questi ritmi e in queste condizioni è molto complicato. Il vecchio e caro ritiro tra i monti, al fresco e a contatto con la natura, è ormai storia. Questo passaggio dalla quiete della montagna alla frenesia della metropoli è il riflesso del passaggio a una dimensione globale del calcio. Ormai i ritmi non sono più quelli di un tempo e bisogna adattarsi. Dunque addio lavoro all’aperto, al fresco, lontano dal caos del mondo. A livello fisico questo cambiamento si percepisce, è chiaro che il ritiro vecchio stile sia più formativo per i calciatori. Ma, dal momento che ormai tutti i top team hanno adottato questa tipologia di ritiro estivo, la differenza col metodo classico si annulla.
Dunque quello che sembrava un prezzo altissimo da pagare, in realtà non lo è. Spesso si guarda a queste tournée con occhio critico, a ragione sicuramente. Non si può paragonare il classico ritiro in montagna con questi massacranti viaggi intercontinentali. Ma ormai questi viaggi sono inevitabili. Gli ultimi anni ci hanno insegnato che il club è sempre più un’azienda, che prima di tutti devono quadrare i conti, che i soldi sono, ahimé, il centro orbitale del mondo calcio. E un’occasione del genere è imperdibile. La ICC, simbolo magno di tutte queste tournée è un “male necessario”, metafora del cambiamento del calcio, che siate d’accordo o meno.

Più spettacolo e meno lavoro. Questo è il dogma alla base dell’International Champions Cup. Ma, il fatto che praticamente tutti i migliori club vi aderiscano mostra come questo dogma, apparentemente insensato per uno sport di campo, non sia poi un demone come molti lo dipingono. Bisogna rassegnarsi all’idea che ormai i tempi sono cambiati, che il calcio ha una dimensione ben più ampia del rettangolo verde e dei 90 minuti. E la ICC è l’emblema perfetto di ciò. Di tutto ciò che, probabilmente, al tifoso nostalgico non piace, Ma di tutto ciò che le società devono tenere bene a mente per rimanere in prima fila. Ossia che ormai il calcio è business, e questa metamorfosi è ormai compiuta.