Annate da sogno
Il biennio d’oro della grande Samp
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4 anni fa:
Quando si pensa a Genova lo si può fare secondo tanti punti di vista. Il capoluogo della Liguria era la patria della poesia di Montale, è la madre di Fabrizio de André, è il luogo dell’acquario più grande d’Europa, la città del pesto e dell’armonia tra mare e collina, “per accontentare tutti”. Genova è una città che spesso ha dovuto rialzarsi da brutte cadute, è la città che ha il faro, chiamato Lanterna, più alto del Mediterraneo, ed è la città infatti del derby che porta questo nome.
Il calcio infatti, è uno dei punti di vista che si possono adottare per raccontare la città ligure. Già qui avevamo raccontato la grande vittoria del primo scudetto della storia del Genoa, ma anche la Sampdoria, l’altra squadra di Genova, ha vissuto i suoi momenti di gloria. Nata dall’unione tra la Andrea Doria e la Sampierdaranese il 12 agosto 1946, ha già iscritto nella sua formazione la rivalità con i rossoblu. I due club dalla quale ha preso vita erano sul punto del fallimento durante gli ultimi anni della guerra, e in particolar modo la Doria si trovava in condizioni economiche precarie. La Samp al contrario, disponeva di un’ampia liquidità, ma era stata esclusa dal massimo campionato. La soluzione fu quindi logistica ed economica: dalle due società in bilico nacque quella che prese il nome di Sampdoria, che presto diventò l’altra faccia di Genova.
UN INIZIO LENTO
Per iniziare a parlare di Sampdoria competitiva, tocca aspettare il tramonto degli anni Settanta. Nel mondo turbolento del 1979, tra il boom dei movimenti pacifisti e il conflitto freddo tra Usa e URSS, la società blucerchiata trova finalmente il primo grande presidente. L’imprenditore Paolo Mantovani infatti, il 3 luglio di quell’estate, rilevò la Sampdoria, che era una squadra da metà classifica di Serie B. Fino ad allora infatti la Samp brancolava tra la A e la B: dalla sua fondazione era infatti scesa nella serie minore per due volte. La prima nel 1965 e per soltanto un anno, la seconda a partire dal 1976.

Paolo Mantovani (fonte Wikipedia)
Nel giro di pochi anni però, Mantovani seppe trasformare la squadra, capace di saper intraprendere un percorso che rifondò la società, e che durò fino al 1993, anno della morte dell’imprenditore. Durante questo lungo arco di tempo infatti, arrivarono a Genova giocatori di portata internazionale, come i famosi Vialli e Mancini, ma anche Pagliuca o Cerezo, e la dirigenza sportiva seppe creare un gruppo unito, che a mano mano fece arrivare alla Samp i primi importanti trofei.
Il primo arrivò nel 1985, quando la squadra vinse la Coppa Italia. Per la prima volta le mani dei blucerchiati poteva toccare il cielo e quell’anno fu la consacrazione della squadra come club in corsa per raggiungere i massimi trofei il palio. La finale di Coppa Italia sapeva già di futuro, perché a segnare nella partita di ritorno furono proprio i gemelli del gol doriani: Vialli e Mancini, gli uomini protagonisti anche del biennio d’oro che presto avrebbe portato la Sampdoria a livelli fino ad allora impensabili e ancora oggi unici nel suo percorso.

Giancluca Vialli e Roberto Mancini (fonte Wikipedia)
I GEMELLI DEL GOL DORIANI
“Con Mancini sono in buone mani”.
Queste parole pronunciate da Gianluca Vialli non sono molto lontane. Sono quelle che lo scorso novembre l’ex calciatore ha pronunciato quando ha saputo che sarebbe stato inserito dalla Federcalcio come capo delegazione della nazionale italiana, allenata dal compagno Roberto Mancini. Quelle parole però sono associabili al pensiero di Vialli anche in riferimento alla loro esperienza a Genova, dove hanno costituito una delle coppie gol italiane più prolifiche ed emozionanti, la giusta miscela per la vittoria dell’unico e incredibile scudetto della Samp del 1991, fino alla corsa alla finale di Coppia dei Campioni contro il Barcellona l’anno successivo.
Gianluca Vialli arrivò nell’estate del 1984 alla Sampdoria, e lì ha incontrato Mancini, che giocava in blucerchiato già da due stagioni. Insieme hanno creato un connubio sotto la dirigenza di Mantovani, che sul campo ricalcava soltanto la profonda amicizia che si era creata fuori, e che ancora, dice la cronaca, persiste. L’uno, Vialli, arrivava dalla Cremonese, dove si era fatto conoscere anche grazie ai dieci gol da traino per la promozione in Serie A; l’altro, Mancini, era stato fortemente voluto da Mantovani, che pagò 4 miliardi di lire al Bologna per portarlo a Genova.
I gemelli del gol furono il motore offensivo ideale per il rinnovamento che stava subendo la società. Soprattutto quando nel 1986 arrivò sulla panchina Vujadin Boskov, un uomo di mondo, colto e simpatico, che seppe potenziare i talenti forse fino ad allora acerbi dei due attaccanti. I due erano “due allenatori già quando giocavano“, come li ha definiti Gianluca Pagliuca, loro compagno alla Samp. Saper trascinare, essere leader, essere amici, e soprattutto saper arrivare a conclusione insieme: il loro picco fu nella stagione 1990-91, quando insieme segnarono 31 reti, rendendo la “macchina Sampdoria” inarrestabile.
PRIMO SCUDETTO
Il biennio d’oro della grande Samp inizia in quell’anno. Era infatti il 9 settembre dell’estate fresca di Mondiali che la Doria sconfisse nella prima partita il Cesena per 1 a 0. Nella rosa era appena arrivato il neoacquisto sovietico Mychajlyčenko, centrocampista che presto si congiunse alla coppia d’attacco per formare un centravanti offensivo degno da primo posto in classifica. Oltre tutto, quel campionato del 1990 e in genere quel decennio, era forse l’ultima volta in cui la Serie A era al centro del mondo. A Napoli c’era il calcio di Maradona, nel Milan c’erano Van Basten e Gullit, nell’Inter Matthäus e Brehme, e Baggio era appena approdato alla Juventus tra scalpore e voglia di vittoria.
La Sampdoria di Boskov era una delle squadre forti del campionato, ma non certo la prima ad essere candidata per lo scudetto. Tuttavia, a Genova si era festeggiato già per la Coppa delle Coppe vinta la stagione precedente, e Vialli e Mancini avevano giocato un buon mondiale. Il clima che si respirava era quindi uno di conferma: l’inizio del nuovo decennio, il Campionato del Mondo perso, e tanti campioni che sui prati italiani rincorrevano lo scudetto.
Anche se Vialli e Mancini erano una coppia gol annunciata, la loro prima “doppietta” arrivò soltanto l’11 novembre, contro il Pisa, partita vinta per 4-2 dai genovesi al Ferraris. Qui arrivarono dopo l’importante partita di San Siro, vinta con il gol di Cerezo, e dopo sei giornate arrivò di nuovo la loro combo gol contro l’Inter: Vialli segnò una doppietta e Mancini concluse quasi alla fine con la terza rete, mandando a casa Trapattoni e la sua Inter. I nerazzurri tuttavia, furono campioni d’inverno. Ma nel girone di ritorno furono Sampdoria e Milan a lottare alla pari contro l’Inter, che fu nuovamente sconfitta dai blucerchiati il 5 maggio. La matematica vittoria della Samp arrivò però il 19 di maggio, con il 3-0 al Lecce.

I gemelli del gol e il nuovo acquisto Mychajlyčenko (fonte Wikipedia)
Il tricolore andò quindi a premiare il progetto e il lavoro svolto da Mantovani, che con una rosa equilibrata che formò un solido rapporto anche oltre il calcio, vinse da outsider. Il suo percorso fu infatti in continua crescita, una scalata graduale e lenta, ma studiata per arrivare alla vittoria, conquistata soprattutto negli scontri diretti e grazie al protagonismo di Vialli, miglior marcatore con 19 reti. L’epopea blucerchiata era quindi compiuta e quella coppa fu alzata al cielo con spirito di gruppo e passione autentica, che l’anno successivo cercò di essere duplicata.
L’APICE
La Sampdoria decise di mantenere Boskov in panchina, che insieme al presidente Mantovani si era aggiudicato la benevolenza del pubblico. Nel frattempo però, le altre big del campionato si attrezzarono per tornare sulla vetta, dalla Juventus che richiamò il Trap in panchina, al Milan che dette con lungimiranza fiducia a Fabio Capello.
In quella stagione però, sembra che il massimo dell’impegno e dello sforzo i doriani l’abbiano dedicato altrove. La Sampdoria giocò infatti ottime partite nella Coppa dei Campioni, che rappresentava tanto quanto ora la massima competizione a cui un club potesse ambire. La Sampdoria, con il tricolore cucito sul petto, giocò la prima sfida con il Rosenborg, campione norvegese, che letteralmente fu travolto dai doriani. L’andata si giocò di fronte a 25 mila spettatori del Marassi, che gioirono per i 5 gol che i blucerchiati regalarono alla città con le doppiette di Dossena e Lombardo e la conclusione di Silas. Anche il ritorno fu travolgente, grazie al primo gol europeo di Mancini, così come il resto del torneo e la rimonta con l’Honvéd negli ottavi, questa volta con la doppietta di Vialli.
Già nel 1991-92 si iniziava ad assaporare il format che sarebbe stato della Champions League, e quindi dopo gli ottavi la Samp giocò un girone all’italiana, introdotta al posto dei quarti di finale e delle semifinali. E con tre vittorie, due pareggi e una sconfitta la squadra di Mantovani arrivò in testa al suo girone. Soprattutto la partita contro la Stella Rossa di Mihajlović fu uno spartiacque per il percorso della squadra: proprio contro la rete del serbo la Samp riuscì in una storica rimonta, e vinse 1-3, presentandosi al grande calcio europeo come candidata a quel trofeo dalle grandi orecchie, che sarebbe stato il premio per coronare il percorso univoco dei giocatori, dell’allenatore e del presidente. Anche se questo non avvenne.

Vialli e Mancini (profilo IG @sampdoria)
VERSO LA FINALE
Nell’aria c’era già una sorta di retrogusto amaro che faceva interpretare quella stagione come l’ultima del periodo d’oro della squadra. Vialli e Pari, centrocampista che dall’83 vestiva blucerchiato, avevano già le valigie pronte per altre mete, emblema della fine di un ciclo. Tuttavia, la finale contro il Barcellona di Cruijff, era attesissima.
Oggi sarebbe impensabile paragonare le due squadre, quasi utopistico e impossibile, dati alla mano. Ma allora la partita era tutta da giocare. Tre anni prima, in finale di Coppa delle Coppe, i due club si incontrarono a Berna, e i blaugrana sorpassarono gli italiani con due gol. Quell’anno invece la Sampdoria aveva un trofeo in più in bacheca, lo scudetto, era la squadra italiana più forte, aveva sormontato altri angoli Europei e si era fatta strada tra i vicoli più ostili del continente, abbattendo i serbi di Belgrado fino all’ultimo respiro. Ora poteva finalmente vedere sul tabellone il suo nome affiancato a quello del Barcellona, che allora non aveva ancora alzato nessun trofeo nella Coppa dei Campioni.
Immaginiamo Genova e i suoi tifosi, immaginiamo Paolo Villaggio “doriano dal 1946”, immaginiamo una città in subbuglio, compresa tra mare e monti e con lo stadio incorporato, come raramente si trova, dentro un quartiere e tra le case. Quello stadio tiene dentro di sé le voci e le urla dell’inizio del percorso di Mantovani che però, adesso, sono state così forti da oltrepassare il mare e lo stretto della Manica: siamo al Wembley Stadium di Londra, e bisogna stropicciarsi gli occhi per capire di non sognare.
Strano pensare che, dieci giorni dopo il primo trofeo della Samp, la Coppa Italia alzata il 3 luglio 1985, in quello stadio il Live Aid diventava uno dei concerti più belli e importanti della storia e della cultura musicale. I Queen cantavano We are the champions, inno di ogni vittoria e di ogni trionfo in qualsiasi sport o impresa della vita, e quanto avrebbero voluto i doriani dopo sette anni unirsi a quel coro per essere per la prima volta campioni d’Europa.
VERSO LA FINE
Era il 20 maggio del 1992, e c’erano 90 minuti e 11 giocatori vestiti di arancione tra la Sampdoria e la Coppa dei Campioni. La partita però fu nei minuti regolamentari equilibrata: Vialli non capitò nella sua serata migliore e si mangiò due occasioni da gol, mentre Pagliuca e Zubizarreta, i portieri, salvarono entrambi pericolosi tiri. La Samp giocò spesso con lanci lunghi, quasi sorprendendo la difesa avversaria, anche se mai abbastanza. E arrivò infine il fischio dei 90 minuti a reti inviolate.

Gianluca Pagliuca (fonte: profilo IG @sampdoria)
Si iniziarono quindi i supplementari, che per più di un tempo non videro nessun vantaggio. Successe però, che al 112′ e con già i piedi che frizzavano per i rigori, venne fischiato un calcio di punizione al Barcellona dopo un contrasto tra Invernizzi e Sacristan. Sulla palla Roland Koeman. In quella corsa verso il pallone da calciare c’era la sorte della vittoria. Tutti lo sapevano, sia Koeman che non doveva sbagliare, sia Pagliuca che doveva fare del suo meglio. Nei metri che separavano il difensore balugrana dalla palla c’era l’intera storia del percorso che Mantovani aveva intrapreso, che avrebbe potuto finire gloriosamente. E perché questo avvenisse, la palla non doveva andare in porta. Ma poi il fischio, la rincorsa, il calcio, e la rete che si gonfia.
In quell’istante era chiaro che per la Sampdoria era davvero finita. Gli spagnoli esplosero in una gioia pazzesca, i genovesi si ripiegarono in un pianto triste. Mantovani non era riuscito anche in quel difficile compito: il più era stato probabilmente fatto e di più evidentemente non si poteva fare. La finale coronò il sogno del Barcellona, che da quell’anno iniziò una crescita esponenziale nei campionati europei, e affossò la Sampdoria, che si adagiò in una progressiva modestia, caratterizzata da slanci di positività, l’ultimo: Quagliarella miglior marcatore in Serie A nella stagione 2018-2019.
EREDITÀ
Quella finale fu quindi un aut-aut: come se decretasse chi tra le due avesse il diritto per continuare a stare in Europa e chi invece, doveva ambire ad altri progetti. La Samp due anni dopo vinse la Coppa Italia, ma nel 1999 retrocesse in serie B. Già nel 1993 però, dopo la morte di Mantovani per un cancro ai polmoni, la Sampdoria perse potenza, giocatori, e protagonismo. Il biennio d’oro fu una parentesi felice, terminata amaramente con un gol al 112′ in quel 20 maggio del 1992.
Vialli spesso è ritornato sulla vicenda di quella sera, e qualche anno fa ha dichiarato che mentre lui e Mancini piangevano dopo la sconfitta, Boskov disse loro:
“I veri uomini non piangono per una partita di calcio”.
Ma qui, caro Vujadin, hai sbagliato di grosso: i veri uomini (e le vere donne) piangono anche per questo.
Fonte immagine in evidenza: Wikipedia.
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Annate da sogno
L’ultima grande Lazio: la stagione 1999/2000 e la Champions League
Pubblicato
3 mesi fa:
Settembre 19, 2023
La Lazio torna dopo due anni di assenza a competere nella Champions League. I biancocelesti, nel gruppo E con Atletico Madrid, squadra con cui esordirà questa sera, Celtic e Feyenoord, potranno dire la loro per il passaggio del turno. Sarri dovrà trovare la migliore Lazio possibile nonostante il brutto avvio in campionato ma che ha fatto vedere le migliori qualità ad esempio nella vittoria contro il Napoli. Fra giocate di squadra nello stretto ed individuali, come Luis Alberto, probabilmente il miglior giocatore in questo momento, la formazione schierata dal tecnico toscano cercherà di esprimere il calcio migliore da proporre contro un avversario ostico, che preferisce lasciar giocare gli avversari.
A ritrovarli nel loro esordio della massima competizione europea sarà l’Atletico Madrid, con il Cholo Simeone sempre a guidare i Colchoneros. Proprio l’argentino ha vissuto uno dei migliori momenti della carriera nella Capitale, sponda ovviamente biancoceleste. All’epoca giocatore e centrocampista, Simeone ha fatto parte di una rosa straordinaria che ha conquistato il titolo di campione d’Italia nella stagione 1999/2000. Proprio in quella cavalcata, parallelamente alla Serie A, la Lazio ha raggiunto il miglior risultato di sempre nella sua storia in Champions League.
Andiamo quindi a scoprire la rosa diventata storica per il club visti i traguardi raggiunti.
“Mi viene la pelle d’oca ricordando gli anni in cui i tifosi mi amavano tantissimo e mi davano sempre tanto calore. Sono stati anni di calcio ben giocato qui e abbiamo vinto tanto insieme”.
Diego Simeone nella conferenza stampa pre Lazio-Atletico Madrid
LA ROSA CAMPIONE D’ITALIA
La miglior Lazio capace di raggiungere i quarti di finale della Champions League ha una rosa storica e iconica per ogni tifoso della squadra capitolina. Guidati da Sven-Goran Eriksson, allenatore svedese conosciuto per il suo gioco combattivo e cinico, i biancocelesti saranno infatti una formazione molto unita, che non verranno spesso trascinati da un singolo. Una vera e propria coesione dove titolare o subentrante sapeva perfettamente cosa svolgere in campo. Lo dimostra soprattutto la cifra dei gol segnati dal principale attaccante, Marcelo Salas, che siglerà 12 gol in Serie A e sarà anche l’unico della rosa a superare la doppia cifra.
In porta, Luca Marchegiani era il titolare. La difesa veniva composta da una linea a 4 con Giuseppe Pancaro e Paolo Negro, sulla corsia sinistra e di destra, a completare il reparto difensivo composto dai due centrali Nesta e Mihajlovic, difensori forti nel contrasto ma dalla tecnica raffinata, soprattutto per il serbo, data anche la grande quantità di punizioni segnate in carriera. Abili dunque a far ripartire l’azione, i centrali venivano spesso schermati ed aiutati nella fase difensiva da un mediano: Sensini in primis e Almeyda poi erano designati perfettamente in questo ruolo. L’ex Parma e Udinese riusciva a ricoprire anche più ruoli come il terzino o il difensore centrale per via delle sue grandi doti difensive, ma dal piede abile per l’impostazione.
Lazio, 1999/2000. pic.twitter.com/3xQ8CVdiG5
— 90s Football (@90sfootball) January 22, 2020
Il centrocampo era poi formato da altri due argentini ad accompagnare l’azione: Juan Sebastian Veron e Diego Simeone appunto, autore del gol che riaprirà la corsa scudetto contro la Juventus. Per l’ex Parma sarà a livello realizzativo la miglior stagione dal punto di vista realizzativo, con doppia cifra raggiunta fra Serie A e Champions. Per il Cholo invece, dotato di grande corsa e anche senso dell’inserimento per colpire di testa, veniva affidato un ruolo per aiutare il regista. Sugli esterni, ecco che si trovavano i due equilibratori della squadra, abili nell’aiutare la squadra anche in fase difensiva ma soprattutto a cambiarne il volto in attacco. Nedved a sinistra e Conceicao sulla destra erano in grado mettere in difficoltà l’uomo, il primo con la palla al piede e dagli strappi micidiali, il portoghese invece con la sua intelligenza tattica per gli inserimenti.
In attacco, troviamo due attaccanti principali: Marcelo Salas, che come detto in precedenza è risultato il miglior marcatore della squadra, e Simone Inzaghi. I due attaccanti non risultavano quasi mai in campo contemporaneamente, con il cileno preferito da Eriksson per la sua abilità nel giocare sul corto per via della tecnica eccelsa, mentre Inzaghi preferito per il lancio lungo alla ricerca della profondità. In rosa erano poi presenti altri elementi dove spiccano soprattutto i nomi di Dejan Stankovic, ancora acerbo per guadagnare un ruolo fondamentale con questi giocatori in campi, e l’ex Juventus Boksic che insieme a Mancini hanno svolto per lo più il ruolo di seconde punte. Per via dei tanti problemi fisici i due non hanno saputo dare il contributo decisivo alla squadra.
L’AVVENTURA IN CHAMPIONS LEAGUE
La Lazio nel 1999/2000 disputa la sua prima Champions League della storia. Qualificata come seconda nel campionato precedente e dalla forza della squadra, giunge come formazione più forte del suo girone. Sorteggiata nel gruppo A, finisce insieme all Dinamo Kiev, Bayer Leverkusen e Maribor. Rispettando le aspettative, la Lazio conclude alla grande la prima fase a gironi vincendo 4 partite e pareggiando le restanti. Nelle seconda fase le cosi si fanno più complicate visto anche il livello degli avversari: nel gruppo con il Chelsea di Zola, il Feyenoord e Marsiglia i biancocelesti perdono la loro prima partita con gli olandesi. Ma il pareggio all’Olimpico e la decisiva gara giocata a Stamford Bridge vinta contro i Blues per 2-1 grazie alla rete da vero numero 9 di Inzaghi ed alla straordinaria punizione di Mihajlovic. Con i francesi invece arrivano due vittorie.
22/03/00 – Chelsea vs Lazio
Siniša Mihajlović 🎯pic.twitter.com/UVCrgLw4mn
— My Greatest 11 (@MyGreatest11) March 22, 2023
La corsa verso il sogno più importante si interrompe però ai quarti di finale, quando la Lazio pesca il Valencia, futura finalista di quella competizione. Prima al Mestalla gli spagnoli si impongono con un grande 5-2, quasi impossibile da rimontare. Infatti, il gol di Veron risulterà inutile nella gara di ritorno, finita 1-0 per i padroni di casa.
I TRAGUARDI RAGGIUNTI
Nonostante l’amarezza dell’eliminazione in Coppa, a livello europeo la Lazio può vantarsi di un prestigioso trofeo internazionale vinto a inizio stagione: la Supercoppa Europea. Contro il Manchester United di Sir Alex Ferguson campione d’Europa in carica, con un gol di Salas la squadra di Eriksson si impone per 1-0. Dopo un match di campionato contro il Sunderland, tanti anni dopo lo scozzese rilasciò questa intervista riguardo ai ricordi più amari dopo 25 di fila sulla panchina dei Red Devils. Uno di questi fu proprio legato alla Supercoppa del 1999:
“Nel 1999 abbiamo perso la Supercoppa Europea contro la Lazio che in quel momento era la migliore squadra al mondo ed è forse questo il ricordo più amaro”.
Oltra alla Serie A conquistata all’ultima giornata, anche la Coppa Italia, terza nella storia della Lazio, viene vinta dai biancocelesti, assoluti dominatori in Italia in quella stagione. Nella doppia finale contro l’Inter è decisiva la gara di andata vinta per 2-1, mentre al ritorno ci sarà solo uno 0-0.
Annate da sogno
Tre italiane in finale nelle coppe europee: fortuna o rinascita del nostro calcio?
Pubblicato
7 mesi fa:
Maggio 22, 2023
È indiscutibilmente l’anno dell’Italia, almeno per quanto riguarda il mondo del calcio. Tre italiane in finale nelle tre coppe europee era qualcosa di difficilmente pronosticabile a inizio anno. E non solo: quello che stupisce ancora di più è il numero delle squadre che sono riuscite a farsi strada durante il loro cammino nelle competizioni continentali. Abbiamo portato ben tre team ai quarti di finale di Champions League, due in semifinale di Europa League (in cui abbiamo sfiorato una finale tutta italiana) e, per la seconda volta consecutiva, una in finale di Conference League.
Non si può non elogiare il percorso e la crescita di quasi tutte le compagini della nostra nazione e in molti si sono chiesti se questo non possa essere il punto di partenza per un nuovo dominio italiano in Europa, come fu a cavallo fra gli anni ’90 e i primi del 2000. La domanda ha ovviamente senso, non solo considerati i risultati di questa stagione ma anche per il fatto che la nostra Nazionale (pur non riuscendo tristemente a qualificarsi per il Mondiale) è la detentrice del titolo europeo, conquistato appena due anni fa.
Altri, un po’ più pessimisti, hanno tirato in mezzo anche la fortuna di aver avuto dei sorteggi favorevoli. E quindi a cosa credere? Abbiamo realmente avuto solo fortuna o c’è qualcosa in più? Affrontiamo la questione con una semplice analisi dei fatti per scoprire a che punto è il nostro calcio e se potremmo rivedere questo exploit delle nostre squadre nel prossimo futuro.
LE DIFFERENZE FRA CHAMPIONS, EUROPA E CONFERENCE LEAGUE
Sarebbe fuorviante affrontare la questione in maniera unica per tutte le squadre italiane e anche farlo non considerando le differenze fra le tre coppe europee. Champions, Europa e Conference League sono, infatti, tre competizioni studiate per fini diversi e per compagini diverse. Prendiamo in considerazione l’Europa League e la Conference League. Come sappiamo queste coppe sono un’opportunità per le squadre di medio/alto livello del panorama calcistico continentale. Non indicano la squadra più forte d’Europa ma ci aiutano a valutare un parametro importantissimo: il livello dei vari campionati europei.
La salute della classe media è in molti casi un sintomo della salute di una società e, nel mondo del calcio, queste due competizioni sono quelle che più di tutte ci indicano lo stato di salute di un movimento. Nel caso dei club italiani, possiamo tranquillamente dire che, visti i risultati in queste competizioni in questi ultimi anni, il nostro calcio sta molto più che bene.
In EL abbiamo avuto quattro squadre arrivate almeno in semifinale nelle ultime quattro edizioni e in ECL per la seconda volta di fila una nostra squadra può giocarsi la coppa. Questo ci porta a ragionare sul fatto che il livello medio della Serie A è molto alto anche rispetto agli altri campionati europei di punta. Se ci riflettete, questo è anche il motivo per il quale la lotta Champions in queste ultime stagioni del campionato italiano si è fatta sempre più avvincente.
Un livello tale che ha fatto sì che venissero create delle rose altamente competitive per queste due competizioni e l’auspicio per il futuro è che le italiane possano ambire di anno in anno alla vittoria di queste due coppe europee. Purtroppo, va fatto un discorso diverso per la terza coppa, la più importante, la Champions League.
IL CAMMINO DELLE ITALIANE IN CHAMPIONS LEAGUE
La coppa “dalle grandi orecchie” è quella che racchiude l’élite del calcio europeo. Non solo, è anche innegabile come siano sempre i soliti top club del continente ad accedere alle fasi più avanzate del torneo. Squadre come Manchester City, Real Madrid, Bayern Monaco, tutti squadroni pensati per vincere il trofeo ogni anno. In questa stagione abbiamo però assistito a un vero e proprio dominio del nostro calcio anche nella manifestazione più importante.
Tolta la Juventus, l’unico club che rispetto ai precedenti anni ha avuto una flessione, Inter, Milan e Napoli hanno dimostrato, aiutate anche da un campionato maggiormente competitivo e, dunque, più “allenante”, di avere delle rose molto ben attrezzate anche per poter dire la loro. E, soprattutto, di poter giocare un calcio al livello di quello dei top club europei.
L’Inter, per arrivare fino in fondo, ha dovuto superare un girone di ferro con Bayern Monaco e Barcellona. Il Napoli ha affondato il Liverpool, finalista della precedente edizione, e ha, per lunghi tratti, giocato un calcio tra i migliori d’Europa. Il Milan è rinato grazie allo strepitoso lavoro di Pioli e Maldini. Tutte realtà in crescita, come lo sono anche Roma, Lazio e Fiorentina. Ma, dunque, possiamo ripetere l’exploit di quest’anno anche nelle prossime Champions League?
QUANTO HA INFLUITO LA FORTUNA?
Purtroppo dobbiamo anche affrontare il fatto che, probabilmente, abbiamo anche avuto un po’ di fortuna. Come ci ha insegnato Niccolò Machiavelli non dobbiamo sottovalutare l’operato di questa forza che l’uomo può a volte controllare, ma che spesso va al di là delle nostro operato.
È innegabile, quindi, che il sorteggio dei quarti di finale, che ha posto ben tre italiane in un lato del tabellone, è stata una contingenza che ha influito molto sul prosieguo della competizione. Una situazione che difficilmente potremo rivedere nei prossimi anni, salvo eventuali ulteriori aiuti della Dea bendata. Quindi? Dovremmo prendere questa strepitosa stagione delle italiane nelle coppe europee come unica e irripetibile e frutto solo della fortuna?
RIPARTIRE DA QUI
Come abbiamo detto, è innegabile il miglioramento di quasi tutte le nostre squadre da un punto di vista tecnico, tattico e gestionale. È vero, la fortuna ha in parte influito, ma non si possono nascondere le virtù delle nostre società. Ecco, proprio questa parola sarà il cardine dei prossimi anni del calcio italiano. Non a caso un concetto nuovamente machiavellico: la virtù, ovvero la forza che l’uomo contrappone alla fortuna, quando questa decide di voltarci le spalle.
Se per Europa League e Conference League la forza delle nostre squadre ci permetterà di lottare sempre per la vittoria, per la Champions League ci troveremo, già dall’anno prossimo, a fare i conti con delle realtà superiori a noi. Ma non possiamo lasciarci sfuggire l’opportunità che questa stagione calcistica ci ha offerto, ovvero quella di dimostrare che anche noi possiamo tornare ad ambire a grandi traguardi.
Il nostro movimento può e deve ripartire da questa stagione per poter progredire ulteriormente e le nostre società muoversi per far sì che questo non sia un anno unico e irripetibile, ma che, col tempo, diventi la norma. Far sì che, con le proprie forze, i club italiani riusciranno a raggiungere posizioni di vertice nelle coppe europee (anche in Champions League) a prescindere dall’aiuto che la fortuna sceglie di offrirci.
Annate da sogno
Henrikh Mkhitaryan: l’equilibratore dell’Inter
Pubblicato
7 mesi fa:
Maggio 15, 2023
L’acquisto di Henrikh Mkhitaryan nella scorsa finestra estiva di mercato da parte dell’Inter è stato uno di quei colpi che non hanno di certo esaltato i tifosi. Non che sia stato un acquisto criticato, ovviamente, ma neanche uno di quei colpi col botto. Un centrocampista, arrivato a parametro zero, in grado di aggiungere qualità alla manovra ma, in fin dei conti, solamente un buon rimpiazzo per Calhanoglu o Barella. Nulla di più di un completamento del roster nerazzurro.
In pochissimi di noi si sarebbero però aspettati una sua centralità nello scacchiere tattico di Simone Inzaghi oggi, alla vigilia di una storica semifinale di ritorno di Champions League. In una stagione in cui Mkhitaryan è sì partito inizialmente dietro nelle gerarchie dell’Inter, ma è risultato, alla lunga, decisivo per lo strepitoso percorso dei nerazzurri in tutte le competizioni.
DUTTILITÀ
L’intelligenza, qualora volessimo prendere dei parametri per giudicarla, si nota anche dalla flessibilità e dalla duttilità di una persona. Al sapersi ambientare al contesto anche a prescindere dalle difficotà. Ebbene, questo concetto calza perfettamente alla personalità di Mkhitaryan. Una persona, prima ancora che un calciatore, che ha saputo adattarsi e trarre il meglio da ogni esperienza. Parla sette lingue: armeno, russo, inglese, portoghese, francese, tedesco e, ovviamente, l’italiano. Con un laurea conseguita all’Istituto di Cultura Fisica in Armenia.
Nel frattempo ha insegnato calcio in Germania, al Borussia Dortmund di Jurgen Klopp, poi in Inghilterra all’Arsenal e al Manchester United. Ed è proprio qui che la sua intelligenza calcistica prende forma. Mkhitaryan è un tuttofare, un centrocampista in grado di ricoprire ogni zona del campo, dal trequartista all’esterno, con una tecnica unica ma, soprattutto con uno spirito di sacrificio unico.
Infine, l’arrivo in Italia. Alla Roma parte da trequartista, giocando in maniera superlativa, salvo poi arretrare il suo raggio d’azione come mediano insieme a Cristante. Ruolo in cui il suo apporto passa molto più in sordina ma grazie al quale diventa essenziale per Mourinho, sia in Campionato che in Conference League. Da questa stagione all’Inter, per Mkhitaryan si prospettava un progressivo declino, soppiantato dai vari Brozovic, Barella e Calhanoglu, titolari inamovibili per Inzaghi. Ma ecco che il suo apporto è tornato a essere determinante anche a Milano in un nuovo ruolo, quello di mezzala, grazie al quale l’armeno è diventato fondamentale per i nerazzurri.
🥇 MVP 🥇#ForzaInter #MilanInter #UCL pic.twitter.com/Z3hLlO6LsT
— Inter (@Inter) May 10, 2023
LA SUA IMPORTANZA PER L’INTER
La sua intelligenza rara lo ha portato a rendersi indispensabile per le logiche tattiche di Inzaghi. Certo, nel suo passaggio a un ruolo da titolare ha inciso molto l’infortunio di Brozovic, ma la sostituzione del croato con Calhanoglu come vertice basso di centrocampo è stata anche permessa proprio dall’armeno.
Come dicevamo, il sapersi adattare è una delle caratteristiche delle persone illuminate, e Mkhitaryan ha un’abilità speciale nel sapersi muovere in sintonia con i suoi compagni di reparto. La sua accuratezza nei movimenti senza palla gli permette di smarcarsi per offrire una linea di passaggio. La tecnica gli permette di gestire il possesso, sia facendo fluire il pallone con velocità, sia portando egli stesso la sfera in conduzione. La sua tenacia e il suo spirito di sacrificio (pur essendo un 34enne) lo portano, inoltre, a unire alle sue doti qualitative quelle quantitative che per caratteristiche non dovrebbero competergli.
È così che lo si trova spesso a intercettare le linee di passaggio avversarie o andare a contrasto. O anche a sopperire alle avanzate offensive di Calhanoglu, retrocedendo ulteriormente la sua posizione. O, al contrario, sfruttare le sue doti nell’inserimento per spingersi in area quando Barella è impossibilitato a farlo. Sono tutte doti che il numero 22 mette di partita in partita a disposizione dei nerazzurri. Mkhiratyan è il tuttocampista perfetto per l’Inter, l’ago della bilancia essenziale sia in fase offensiva che difensiva.
Non a caso, anche la sua collocazione tattica la dice lunga. Il ruolo di mezzala sinistra, che possiamo definire a tutti gli effetti come il secondo regista della squadra, che, prima di lui e Calhanoglu, fu di un altro illuminato del gioco come Christian Eriksen. E in cui lo stesso Inzaghi adattò, nei suoi anni alla Lazio, Luis Alberto, la fonte creativa di maggior spicco dei biancocelesti in quegli anni. Un ruolo che, dunque, richiede doti uniche per un giocatore, soprattutto per quanto riguarda l’intelligenza tattica. E chi se non Henrikh Mkhitaryan poteva essere l’uomo giusto per ricoprirlo?

È ormai quasi certo il rinnovo di Luka Modric con il Real Madrid. Il centrocampista croato prolungherà ulteriormente la sua già strepitosa carriera, regalandoci il lusso di vederlo giocare anche nella prossima stagione con la camiseta blanca, quando compirà 38 anni. Quasi a non volerci concedere i commenti lusinghieri con il quale vorremmo elogiarlo al termine della sua carriera. No, lui è e continuerà ad essere il faro che illumina le notti del Santiago Bernabeu, beffandosi persino del Padre Tempo.
Certo, ormai siamo sempre più abituati a vedere le carriere dei giocatori prolungarsi fino a tarda età. Visto che siamo in un’epoca di veri e propri super atleti che, in alcuni casi, riescono a fronteggiare anche l’inesorabile scorrere del tempo. Ma per Modric bisognerebbe fare un discorso a parte, visto il ruolo peculiare che riveste, quello del centrocampista. Un giocatore che dovrebbe teoricamente essere il “motore” della squadra, sia dal punto di vista mentale che fisico. Ebbene, il diez croato ha sicuramente dovuto sviluppare un’intelligenza fuori dal comune (e non solo calcistica) per saper essere ancora così decisivo in uno dei club più prestigiosi al mondo e nelle competizioni più importanti. E soprattutto, a saper andare oltre i limiti impostigli dall’età.
UN DOMINIO CHE DURA DA UN DECENNIO
Grazie al suo imminente rinnovo con il Real Madrid, Modric si appresterà a vivere la sua undicesima stagione con le Merengues. Un traguardo assurdo se consideriamo che la carriera del Folletto di Zara in Spagna non era iniziata nel migliore dei modi. Dopo la prima stagione, molti sostenitori madridisti lo additavano addirittura come il peggior acquisto della storia dei Galacticos.
Serve l’arrivo di Carlo Ancelotti l’anno successivo per porlo definitivamente al centro del Real Madrid e a portarlo nell’Olimpo del calcio. Già dalla vittoria della Décima, propiziata proprio da un suo assist per il gol di Sergio Ramos allo scadere della finale contro l’Atletico Madrid.
Da lì inizia la mistica del Real di questo decennio, capace di dominare il calcio continentale come nessuno mai nella storia. Dopo la Décima, arriva il trittico di trionfi dal 2016 al 2018. Un three-peat che non era mai successo in epoca moderna. Modric è al centro del gioco. La stella è ovviamente Cristiano Ronaldo, ma il tempo saprà anche effettivamente svelare che, dietro al magistrale lavoro di CR7 sotto porta, si celava anche il genio tattico e tecnico del trequartista croato. Che, infatti, sopravanza il portoghese proprio nel 2018. Al Mondiale in Russia, Modric trascina la Croazia a una storica finale, che gli vale anche il Pallone d’Oro della stagione, scavalcando proprio il nativo di Madeira.
Ecco, sembrava proprio quello il canto del cigno. Dopo quell’incredibile anno, sia il talento di Modric che l’efficienza di quel Real Madrid parevano affievolirsi fino a sembrare anche anacronistici per il calcio ultra fisico di questi ultimi anni. O forse era solo una pausa scenica, prima del ritorno della scorsa stagione. In cui la Casa Blanca torna a dettare legge in campo europeo, ammantata da un alone di invincibilità che ha più a che fare con il misticismo che con le logiche sportive. Il trionfo in Champions e in Liga della stagione 2021/22, il ritorno della Croazia sul podio mondiale, tutte gesta in cui Modric è uno degli artefici massimi. Decisivo come non mai nonostante il sacrificio dal punto di vista fisico che il tirannico Padre Tempo gli chiede di volta in volta.
Eppure Modric è sempre lì, all’apice, quasi come se anche il tempo, oltre che lo spazio sul terreno di gioco, si pieghino al suo volere. A un passo dall’ennesima semifinale in Champions League con il suo Real Madrid, che prima di accantonarlo deve prima scontrarsi sempre con il fatto che il croato è sempre e comunque fondamentale.
Come un pittore #Modricpic.twitter.com/iJ7me6yJFw
— Marco Conterio (@marcoconterio) April 13, 2022
COME FA A SFIDARE IL TEMPO?
Purtroppo c’è da dire una cosa importante. Non sarà il nativo di Obrovac a sconfiggere il Padre Tempo e continuare a giocare all’infinito. Per il semplice fatto che questo è un avversario al quale, prima o poi, ogni mortale è costretto a piegarsi. E, infatti, anche a veder giocare Modric adesso, nel Real Madrid o nella Croazia, si può notare come il suo dominio tecnico e fisico nelle partite va via via affievolendosi.
Si deve purtroppo constatare come Modric non ha più la corsa, la resistenza, il fisico per poter illuminare ogni singolo momento della stagione. Il Padre Tempo, che gli ha dato la gloria, sta pian piano chiedendogli il conto, togliendogli la dinamicità dei giorni migliori. Ma è proprio qui che risiede l’immensa intelligenza di Modric. Anche lui ha capito che non può sconfiggere l’avanzare inesorabile dell’età. Ma grazie alle sue doti intellettive fuori dal comune ha anche capito come dilatare il più a lungo possibile i suoi giorni di maestosità.
Non riuscendo più a rendere al 100% sul lungo periodo, non gli resta che rimanere quasi dormiente, anche per lunghi tratti della partita e della stagione. Ma scegliendo accuratamente i momenti clou, in cui riversare, anche se per un periodo limitatissimo di tempo, tutta la sua classe. È così che nei big match della scorsa fase finale della Champions League o al Mondiale in Qatar, è risultato ancora una volta determinante. Mutuando un’espressione del basket NBA, Modric è diventato il giocatore clutch per eccellenza. Magari non sempre ai suoi massimi livelli in stagione, ma ingigantendo il peso specifico delle sue giocate in proporzione alla crucialità del momento.
È IL MIGLIOR CENTROCAMPISTA DI SEMPRE?
Che Modric sia già nel Pantheon dei grandi del calcio è un fatto assodato da tempo. Ciò che rimane da chiedersi è se non sia addirittura il migliore del suo ruolo in ogni epoca. Può sembrare un’affermazione forte, divisiva, ma probabilmente non lontanissima dalla verità.
Ovviamente, lungi da noi sbilanciarci in questo modo in suo favore, visto che, nella quasi totalità dei casi, è impossibile rispondere a certe domande. L’unico dato che possiamo analizzare è però questa sua abilità nel poter dilatare il tempo, che in pochissimi hanno avuto in passato. Parliamo di una ristrettissima élite di centrocampisti, come Iniesta, Pirlo, Xavi e Zidane. Probabilmente gli unici che hanno vinto quanto Modric in carriera e che hanno spinto il loro fisico nell’impresa di duellare con i limiti imposti dall’età.
Pirlo e Xavi, per esempio, hanno smesso di giocare ad altissimi livelli lo stesso giorno, dopo la finale di Champions League fra Barcellona e Juventus del 2015, rispettivamente a 36 e 35 anni. L’ultimo atto della carriera di Zizou è stata l’indimenticabile finale del Mondiale 2006 contro l’Italia, lasciando il calcio da trascinatore della sua nazionale a 36 anni. Iniesta (che comunque è ancora un giocatore del Vissel Kobe, in Giappone) lascia il Barça a 34 anni da Campione di Spagna. E poi c’è Luka Modric che, in realtà, sulla carta, ha solo un anno meno di Don Andres, ma che sa ancora regalare emozioni ai più alti livelli di questo sport. E lo farà anche l’anno prossimo, quando compirà 38 primavere. Almeno questo possiamo tranquillamente affermarlo: nessuno ha saputo duellare con il Padre Tempo più a lungo di lui.
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