Alla Ricerca del Diez
Il Diavolo veste “Diez”

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5 anni fa:
Da principio i numeri erano itineranti, non tanto perchè riuscissero a scucirsi dalla maglia, ma non esistendo la numerazione fissa per i calciatori, non si poteva riconoscere un vero proprietario di una divisa. Ovviamente nella storia del calcio ci sono giocatori – anche di epoche lontane – che sono ricordati per un numero di maglia, basti pensare ai vari George Best e la sua 7, un Diego Maradona e la sua inconfondibile 10, o Johan Crujff che si è invece fatto riconoscere da sempre per la maglia numero 14.
Da sempre il calcio è molto legato alla numerologia, sia per un fatto astrale che può ricollegarsi alla Dea Fortuna, o invece per chi ci si è legato per un motivo semplicemente di natura calcistica, e dunque per il ruolo ricoperto; ma ciò che conta è che nel calcio ci sono numeri che possono essere paragonati agli altri, ci sono dei numeri che hanno un peso specifico completamente diverso, perchè la storia ha sempre la sua influenza, in ogni campo.
Ha fatto molto scalpore la decisione di Marcus Rashford, il gioiellino del Manchester United che ha scelto di prendersi la pesantissima maglia numero 10 dei Red Devils: una decisione non da poco per un ragazzo di soli 21 anni. Fin dal suo esordio nel 2016, ha sempre indossato la 19 – che magari fosse per fare la somma 1+9? – e proprio con quel numero si è costruito fino a raggiungere il posto da titolare con i diavoli di Manchester e la convocazione per i mondiali con la nazionale dei Tre Leoni.
Un figlio di Manchester, sponda United, che diventa il numero 10 dello United.
Il primo? No, non è stato il primo. La rossa numero 10 è stata indossata da giovani in rampa di lancio, da originari della contea della Greater Manchester, fino ai giocatori più improbabili, che mai ti saresti aspettato con quel numero.
PRIMA DELLA NUMERAZIONE FISSA
Come detto, i giocatori del passato non potevano decidere di indossare per tutta la stagione un singolo numero di maglia, dato che i titolari indossavano obbligatoriamente i numeri dall’1 all’11, mentre le riserve dal 12 in poi. Nella storia dello United probabilmente ha avuto molto più peso il numero 7, e basti pensare al già citato Best, senza dimenticare gente quale Cantona o David Beckham, ma anche il 10 ha avuto i suoi personaggi curiosi.
Quel numero che rappresentava il giocatore di spicco, il leader tecnico e molto spesso anche carismatico della squadra, che è finito sulle spalle dei giocatori più improbabili: basti pensare allo scozzese Alan Brazil, attaccante di fisico e dalla capigliatura rivedibile (riccioli che circondano la sua testa, ma che lasciano un enorme vuoto in cima… Forse era meglio rasare?) e soprattutto un guerriero, che a tutto faceva affidamento ma non di certo ad una tecnica eccelsa; un piccolo salto in avanti lo si fece tra il 1986 e il 1988, quando fu il britannico Peter Davenport ad appropriarsi della 10: un passato con la maglia del grande Nottingham Forest, non lasciò un gran segno in quel di Manchester, ma quantomeno stavolta parliamo di un giocatore tecnicamente più all’altezza di questa gloriosa maglia.
L’hanno indossata anche un irlandese come Frank Stapleton, un gallese come Clayton Blackmore, fino ad arrivare agli inglesi purosangue come Norman Whiteside e soprattutto il più noto Mark Hughes. Quest’ultimo è maggiormente riconosciuto per la maglia numero 9, visto il suo ruolo di attaccante d’area di rigore, ma per due stagioni (83/84 e 94/95) scelse di indossare la 10.
Come detto in precedenza, la storia della 10 dello United non è così ricca, almeno fino a metà degli anni ’90; da sempre surclassata da altri numeri – il 7 ma anche la 9 che risale addirittura ai tempi di Sir Bobby Charlton – troverà però col tempo dei proprietari degni di nota, partendo già dal 1995.
AN INUSUAL NO. 10
Prendete il giocatore più rognoso, più aggressivo e provocatore della storia dello United. Il leader maximus del centrocampo dei red devils, colui che dall’ “alto” dei suoi 176 centimetri ha fatto la guerra a gente che era il doppio più possente di lui, senza mai tirarsi indietro né a parole, né a fatti. Se vogliamo rimanere nel tema della numerazione 1-11, potremmo definirlo senza alcun tipo di remore il classico 4, il medianaccio tutto pedate e recupero palla. Sempre che la palla riuscisse a prenderla.
Bene, per chi non l’avesse capito, stiamo parlando dell’irish midfielder più pazzo del 20° secolo, ossia Roy Keane, un giocatore che a dispetto delle sue qualità scelse di indossare per un anno la maglia che normalmente viene affidata al giocatore più tecnico della sua squadra. Sinceramente, non è che gli calzasse a pennello, infatti soltanto dopo un anno scelse di lasciar perdere e prendere un numero che sarebbe entrato nella storia della più storica squadra di Manchester e che altri giocatori avrebbero scelto di prendere proprio in suo onore (basti vedere De Rossi a Roma).
La ormai celebre numero 16, che appartiene solo a Keano. Perchè ad Old Trafford there’s only one Keano.
A suo modo anche il suo successore è stato un numero 10 abbastanza inusuale. Spieghiamo per bene: non tanto per la qualità tecnica, che in quel piede destro ce n’era fin troppa, ma perchè nel nostro immaginario non è facile vedere David Beckham senza un numero 7 sulle spalle. Ci siamo abituati a fatica al 23, scelto ai tempi del Real Madrid perchè mai e poi mai si poteva toccare la 7 di Raul Gonzalez Blanco, e ancor di più lo abbiamo fatto per immaginarcelo con una insulsa 32 con le maglie di Milan e PSG.
Ebbene sì, anche Beckham ha indossato la 10, per una sola stagione: il 1996/97, l’anno della sua consacrazione, dopo che nella stagione precedente era entrato a far parte della prima squadra sostituendosi ai vari Paul Ince e Mark Hughes. Gli era bastato un anno per diventare uno dei giocatori più eclettici della rosa dello United di Sir Alex Ferguson, che non esitò un attimo a dargli la maglia numero 10.
E perchè non subito la 7?
Domanda lecita, ma c’è da ricordarsi che in quelle prime due stagioni di quello che poi diventerà spice boy, la numero 7 apparteneva ad un certo Eric Cantona. Non uno con il quale si discuteva tranquillamente. Una volta finita l’avventura del francese con la maglia dello United, fu proprio il giovane e bellissimo David a lasciare la 10 per prendere l’eredità del fenomeno transalpino.
L’ERA DEI BOMBER
Detto di David Beckham, nel 1997 è di nuovo ora di ricercare un nuovo giocatore che possa prendere la maglia numero 10. Stiamo parlando degli anni d’oro dello United, quelli del Treble del 98/99, quelli che rimarranno nella storia di ogni tifoso dei red devils; finalmente la 10 finisce davvero ad un giocatore elegante, un attaccante inglese di quelli che si adattano perfettamente al sinuoso taglio dell’erba e all’eleganza degli stadi d’oltremanica: se la prende Edward Sheringham, per tutti Teddy, attaccante della nazionale inglese che con la nazionale ha disputato ben 2 mondiali e un europeo, e che con lo United ha giocato un centinaio di partite mettendo a referto 31 gol.
Non era un titolare, stiamo parlando degli anni della coppia gol Dwight Yorke e Andy Cole, i Calypso Boys, che poi venivano sostituiti anche dall’eroe del Camp Nou Ole Gunnar Solskjaer, il norvegese che segnò il gol vittoria nella clamorosa finale del ’99 contro il Bayern dopo il pareggio proprio di Sheringham.
Teddy era un centravanti atipico, non proprio il bomber di razza, quello d’area di rigore che si nutre di palloni vaganti, ma era quel genere di attaccante capace di giocare il pallone e venirselo a prendere anche al di fuori dei 16 m dell’area; al Tottenham è diventato grande, al West Ham – questo passaggio a White Hart Lane non è mai stato perdonato – chiuse (quasi) la carriera da eroe, mentre allo United a modo suo è diventato leggenda. Con la 10.
Nel 2001 Sheringham lascerà per il poco spazio Old Trafford, per tornare in quel Tottenham che lo rese grande e che gli permise di conquistarsi il posto tra i 23 che andarono in Corea e Giappone per il mondiale 2002. Ciò significa che la 10 cercava nuovamente padrone. Proprio in quella stagione lo United acquistò un giovane attaccante olandese che si stava facendo vedere a livello europeo con la maglia del PSV Eindhoven: 25 anni, 67 partite e 62 gol con i biancorossi, un bomber di 188 cm dalla velocità di esecuzione senza senso in relazione alla sua stazza, e dalla tecnica superiore alla norma. Il tutto contornato da un’agilità inconsueta.
Un predestinato, qualcuno in patria scomodò addirittura il Cigno di Utrecht Van Basten, e non è un caso che il primo a piombare su questo giovane Van Nistelrooy fu quella gran vecchia volpe di Ferguson.
La curiosità nasce dallo svolgimento della trattativa: già nel 2000 lo United aveva acquistato quello che tutti ad Old Trafford ormai conoscono semplicemente col suo soprannome, Ruud, ma il ragazzone olandese si ruppe poco dopo i legamenti del ginocchio; per questo motivo l’affare fu posticipato, e solo dopo il benestare ricevuto post visite mediche l’acquisto fu formalizzato.
Per fortuna dello United: per 5 stagioni è stato l’idolo dei tifosi, uno di quei giocatori che potevi non vedere per tutta la partita, ma che potevano farti male anche al primo pallone giocabile. Assist, gol a raffica, titoli e tanti litigi e screzi con colui che volle portarlo a Manchester. Furono proprio le due ultime stagioni con i diavoli a corrodere il rapporto tra l’attaccante e l’allenatore scozzese, che scelse di escluderlo nell’ultima parte di campionato impedendogli di lottare con Henry per il titolo di capocannoniere.
Alla fine dell’anno partì, destinazione Madrid, per andare a far parte dei Galacticos 2.0, ma ad Old Trafford lasciò un enorme vuoto.
TECHNICAL POWER
Van Nistelrooy se ne va, e lascia scoperta quella maglia che pian piano prende sempre più peso ed importanza. C’è un ragazzino pagato fior di milioni dallo United che già sta facendo vedere il suo valore, e che fino a quel giorno ha indossato la maglia numero 8 dei rossi di Manchester. 2007, Old Trafford: il giovane Wayne Rooney diventa grande, e si prende la numero 10 dello United.
Classe, mordente, fisico e senso tattico: finché è nel fiore dei suoi anni, Wazza è devastante, ha un piede destro che fa invidia ai più grandi calciatori europei, ha il ritmo forsennato dei classici giocatori inglesi, e anche fisicamente regge contro tutto e tutti; tatticamente ci mette un po’ a crescere, è sempre stato il talento, il leader tecnico ovunque abbia giocato, anche quando era all’Everton a 17 anni. Poi Sir Alex lo ha bacchettato, lo ha coccolato quando necessario e ha trasformato quel ragazzino ribelle in una vera e propria macchina da guerra. Chi avrebbe mai pensato di vedere Wayne Rooney fare il terzino nelle partite più delicate di Champions League?
5 Premier League, 3 Coppe di Lega, 6 Community Shield, una FA Cup, una Champions League, un’Europa League e una Coppa del mondo per club. E aggiungiamo che ad oggi è il miglior marcatore della storia dello United (considerando tutte le competizioni) e primatista di reti anche con la nazionale inglese.
Ora sì che la 10 pesa.
Già, l’ultima foto non è casuale. Sembra un passaggio, una consegna del testimone, perché nell’ultimo anno di Rooney allo United (prima del suo ritorno all’Everton) arriva un ragazzone svedese dalla stazza impressionante, dalla coordinazione devastante e dalla tecnica sublime, che inizialmente indosserà la maglia numero 9, quella dei bomber, mentre poi erediterà proprio dal buon Wayne la 10. Ladies and Gentlemen, Zlatan Ibrahimovic.
Un giocatore che sposta gli equilibri – non è una citazione, anche perchè lui gli equilibri li spostava davvero – che sa fare contemporaneamente il trequartista, la seconda punta e la prima punta. Giocando da solo. Sembrano le frasi celebri su Chuck Norris, ma è tutto vero, Ibra arriva allo United nel 2017, a 36 anni, e nonostante tutto riesce a fare la differenza. Nel primo anno segna 17 gol in 28 partite, contribuendo alla vittoria dell’Europa League sebbene si rompa tutto ciò che è possibile rompersi all’interno di un ginocchio nel quarto di finale contro l’Anderlecht.
Il secondo anno sarà soltanto un graduale recupero, un rientro a rilento, perchè a 37 anni non è scontato tornare come prima dopo la rottura contemporanea di crociato anteriore e posteriore. Lo farà dopo 7 mesi, ma sarà un lungo addio che lo porterà a lasciare Manchester per tentare l’avventura oltreoceano con la maglia dei Galaxy.
Peccato perchè le premesse erano buone, ma nonostante tutto nemmeno la Dea bendata ha fermato del tutto Zlatan.
Adesso tocca a Rashford. Non è certo il peso della numero 7, ma col tempo la 10 dello United ha iniziato ad avere il suo peso specifico. Riuscirà il giovane figliol prodigo a dare ancora più importanza a questa maglia, da renderla nel prossimo futuro importante quanto la celebre 7?
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Il Napoli, con dodici punti di vantaggio sul Milan secondo in classifica, inizia a intravedere il traguardo finale, quello del terzo Scudetto della sua storia. A metà campionato, con 50 punti raccolti, l’impresa è sempre più vicina. 19 partite per suggellare il vantaggio e continuare a dimostrare la grandezza e la bellezza messe in luce finora, a suon di prestazioni esaltanti. La squadra di Spalletti gioca il miglior calcio d’Europa insieme al Manchester City e l’Arsenal. Il gruppo, allenato in modo sublime dall’allenatore toscano, è stato il vero punto di forza in questa prima parte di stagione meravigliosa, il motore di una macchina quasi perfetta.
Titolari e riserve sono amalgamati perfettamente. Tutti rendono al massimo, indipendentemente dal fatto che i minuti a disposizione siano 90 o 10. Il mercato ha sorpreso chiunque, con innesti mirati e incredibilmente produttivi, calatisi immediatamente nel ruolo di protagonisti, come Kim e Kvaratskhelia, superbi nel sostituire due totem come Koulibaly e Insigne.
ARMA LETALE
Il perno, tuttavia, l’arma in più, l’uomo che ha fatto alzare il livello di competitività è, senza alcun dubbio, Victor Osimhen. L’attaccante nigeriano, dopo due stagioni in cui ha fatto vedere solo in parte le qualità che possiede a causa di continui problemi fisici, sembra essere definitivamente esploso.
In stagione ha già messo a segno 14 reti condite da 4 assist in 19 partite in tutte le competizioni, viaggiando a una media di un gol ogni 103′. Ha raggiunto la consapevolezza nei propri mezzi, ha sviluppato una maturità mai dimostrata fino ad ora, calandosi nella parte del leader tecnico e carismatico. Osimhen è sempre più decisivo.
🤝 @victorosimhen9 professione: FARE GOL! pic.twitter.com/yareTWYcF6
— Lega Serie A (@SerieA) January 24, 2023
Voltandosi indietro, è lecito chiedersi se gli infortuni patiti nei primi due anni in Italia lo abbiano fortificato, riuscendo a cavarne il meglio, soprattutto a livello mentale. Nel 2020-2021 è costretto a rimanere fuori dal campo per oltre due mesi a causa del Covid. Nel 2021-2022, invece, durante Inter-Napoli del 21 novembre, si rompe lo zigomo sinistro e l’orbita oculare in seguito a uno scontro terrificante con Skriniar. Inevitabile temere il peggio vista l’entità dell’urto. L’attaccante del Napoli torna a giocare solamente a gennaio, saltando quasi due mesi di stagione.
Il suo ritorno segna anche la comparsa della maschera, dalla quale non si è più separato. Da allora, Osimhen si è trasformato, come se quella maschera, oltre ad avere funzione protettiva, lo abbia reso un supereroe. D’altronde, nella cultura africana le maschere hanno un significato, spesso ultraterreno, sono il mezzo con il quale ci si può mettere in contatto con entità superiori, rappresentandole in terra.
UNO SPIRITO LIBERO
Indubbiamente, Osimhen sta giocando un calcio trascendente, istintivo, a tratti selvaggio. L’ex attaccante del Lille lotta, corre, cade, difende, trascinato da una forza interiore impetuosa. Aiuta i compagni, pressa a tutto campo, non molla mai.
La sua rete contro l’Ajax nella gara di ritorno della fase a gironi, quella del definitivo 4-2, ne è la prova lampante. Si lancia su una palla innocua, rubandola a Blind e appoggiando nella porta lasciata sguarnita da Pasveer, defilatosi per ricevere il passaggio del suo difensore. Un gol animalesco, conquistato con la grinta e la garra di chi vuole conquistare il mondo.
⚽88' ¡GOOOL DEL NAPOLI! Victor Osimhen hace el suyo ante la inexistente defensa del Ajax | Napoli 4-2 Ajax. #ChampionsLeaguepic.twitter.com/VMdCltUgXB
— Golazoz (@golazoz_) October 12, 2022
Vederlo giocare, per quanto possa peccare di grazia, è liberatorio. Osimhen non emerge per l’eleganza nei movimenti o nelle conclusioni. Il suo incedere è spesso goffo, disarticolato. L’impressione che si ha, a volte, è che non riesca a controllarsi, dominato da un pathos interiore inafferrabile, comprensibile a lui e a lui soltanto.
L’ORO DI NAPOLI
Probabilmente il gioiello partenopeo deve migliorare nella finalizzazione e nel gioco di squadra, imparando a gestire meglio alcune situazioni, facendo predominare la ragione e la freddezza all’istinto che lo contraddistingue. Spalletti lo sa e quest’anno, grazie al lavoro svolto insieme, si sono visti i primi progressi.
La vera forza del calciatore nigeriano, ciò che ha reso Osimhen il giocatore attualmente più importante e decisivo della Serie A, è la mentalità. Oggi ragiona da leader. In campo lo seguono tutti. I compagni lo ascoltano, lo abbracciano in massa quando segna, il suo atteggiamento è magnetico.
Lui ama Napoli e Napoli ricambia il sentimento. L’azzurro, ormai, scorre nelle sue vene. Se dovesse, si getterebbe tra le fiamme per onorare e difendere la maglia partenopea. Insieme a Di Lorenzo, capitano della squadra, è il perno di un gruppo che ha spiccato il volo, puntando il terzo Scudetto della storia del club.
Nonostante i soli 24 anni, sembra essere molto più maturo. I lunghi stop delle stagioni passate, le attese, il dolore e la paura ne hanno forgiato il carattere. Ora, dopo essersi assicurato l’amore della città di Pulcinella, Victor Osimhen vuole l’Italia.
Alla Ricerca del Diez
Chi è Olimpiu Morutan, il Brahim Diaz del Pisa

Pubblicato
3 mesi fa:
Gennaio 6, 2023
CHI È OLIMPIU MORUTAN – Trequartista, proveniente dalla Romania, piede mancino, altezza 1.73, talento cristallino e baricentro basso. A queste caratteristiche si potrebbe aggiungere uno spirito da trascinatore e le qualità di uno che può vincere partite da solo. No, non si sta parlando di Gheorge Hagi. Senza voler scomodare il Maradona dei Carpazi, c’è qualcuno che potrebbe ripercorrere le sue tracce: si tratta di Olimpiu Morutan.
Le qualità, però, sono davvero queste e sono le stesse del Regele (in italiano “re”). La strada da percorrere è ancora molto lunga, ma il classe 1999 può essere il degno erede di Hagi in patria. Gică illuminava i campi su cui metteva piede. Pelé l’ha inserito nel FIFA 100, la lista dei 125 giocatori viventi più forti al Mondo, ha vinto sette volte il premio di calciatore rumeno dell’anno ed è stato nominato calciatore rumeno del secolo.
Tanti riconoscimenti, probabilmente irraggiungibili per il trequartista del Pisa, ma i tratti in comune enunciati prima non possono essere dimenticati.
Morutan plays pool 🎱🎯#SerieBKT | @PisaSC pic.twitter.com/Kg3YI4mDez
— Lega B (@Lega_B) November 6, 2022
SORTIT
La parola è presa dal rumeno, ma si capisce benissimo il campo semantico di riferimento. Quel “sort” iniziale è inequivocabile, infatti significa “predestinato, prescelto”. Si potrebbe definire così la carriera di Morutan. Nasce il 25 aprile 1999 a Cluj-Napoca, una città molto variegata e ricca di storia, oltre che essere la capitale non ufficiale della Transilvania. La vivacità della cittadina è presente anche nel mancino del Pisa, che riesce subito a mettersi in mostra per le sue doti con il pallone.
Muove i suoi primi passi nel settore giovanile dell’Universitatea Cluj, squadra con cui esordisce a soli 16 anni in Liga II, il secondo livello del calcio rumeno. Nella stagione successiva, viste le qualità e l’esordio, che facevano di lui un predestinato, perfeziona il suo passaggio al Botosani, nella prima divisione rumena.
Da qui in poi, difficilmente uscirà dal campo e riuscirà, grazie a questa continuità, a mettere in mostra tutto il suo bagaglio tecnico e artistico. Nell’annata 2017/18 riesce anche a incrementare i suoi numeri, trovando 2 gol e fornendo 5 assist per i compagni. Tutto ciò gli permette di attirare le attenzioni di una squadra sempre molto attenta ai giovani: la Steaua Bucarest.
Arrivato nella squadra più importante del paese, riesce a consacrarsi partita dopo partita. Un infortunio al legamento crociato all’inizio della stagione 2019/20 rallenta il suo percorso di crescita, ma sarà l’annata successiva a renderlo il grande talento di cui tutti parlano. Nel 2020/21 realizza 8 gol e fornisce 15 assist in 36 presenze e, oltre all’esordio in Nazionale, mette in bacheca la Coppa di Romania e la Supercoppa.
Da qui, attirerà le attenzioni del Galatasaray. I turchi lo strappano per 5.7 milioni di euro e si lega al club per 5 anni. Ne basterà uno, però, per convincere il Pisa ad acquistarlo.
CHI È OLIMPIU MORUTAN: LEADER DEL PISA
Dopo un breve periodo di adattamento, coinciso con il peggior momento del Pisa in stagione sotto la guida di Maran, Morutan è riuscito a mettere in mostra tutto il suo repertorio. Non è un caso se la squadra toscana non perde dal 10 settembre. Il trequartista rumeno si sta perfettamente adattando agli schemi di Luca D’Angelo e riesce a svariare molto sulla trequarti, lasciando pochi riferimenti ai difensori.
Fino ad ora, in 17 presenze ha trovato 4 gol e 7 assist, numeri molto interessanti. Oltre a questo, però, la sua caratteristica principale sembra essere la leadership: i compagni sanno di potersi affidare a lui nel momento del bisogno. All’esordio nel campionato cadetto, condito da due assist, è seguita una trasformazione su calcio di rigore decisiva per il pareggio con il Como. Non è da tutti presentarsi dal dischetto dopo due partite, ma la conclusione sotto l’incrocio dimostra il perché di questa sicurezza.
Inoltre, il fatto interessante è che sta trovando questa grande continuità di rendimento in Serie B. In un campionato storicamente fisico e ricco di contrasti duri, Morutan sta riuscendo a prendersi la scena grazie al suo baricentro basso che gli permette di prendere colpi ma di restare comunque in piedi. La sua tecnica cristallina, abbinata a questa qualità, gli consentono di non perdere quasi mai il controllo del pallone.
POTM BATINI NOVEMBRE 🏆
Olimpiu Moruțan il più votato 🖤💙https://t.co/p0jg5CNUX4 pic.twitter.com/aBIq1uQxpp
— Pisa Sporting Club (@PisaSC) December 22, 2022
MORUTAN VISTO DAL VIVO
Quando Morutan è in campo, ci mette davvero poco per farsi riconoscere. Innanzitutto perché, in un calcio che sta diventando sempre più fisico, resta uno dei pochi a non raggiungere nemmeno il metro e settantacinque. Soprattutto, però, perché in Serie B ci sono davvero pochi calciatori con la sua abilità tecnica e la sua capacità di muoversi nello stretto.
Queste due abilità disorientano i difensori avversari, costretti spesso a spendere il giallo per fermare le sue accelerazioni. Nel match tra SPAL e Pisa è caduto nella sua trappola Biagio Meccariello, che non ha resistito alla tentazione di rifilargli un calcione, prendendosi l’ammonizione.
Durante la stessa partita, Morutan è stato il faro della sua squadra nel momento di difficoltà. La difesa degli estensi riusciva a respingere bene gli attacchi provenienti dall’alto, con i palloni lanciati sulla testa di Torregrossa prima e di Gliozzi poi. Morutan, invece, si intrufolava tra le linee e riusciva spesso a ricevere la palla già girato verso la porta. In questo modo, riusciva senza problemi a puntare i difensori e a superarli, per poi creare diversi pericoli.
Per caratteristiche fisiche, tecniche e atletiche ricorda molto Brahim Diaz del Milan. Mancino con baricentro basso e grande qualità, in grado di scompaginare con un dribbling le difese avversarie. Per questo, bisogna aspettarsi molto da Olimpiu Morutan, il “sortit”.
Alla Ricerca del Diez
Mario Kempes, l’eroico Diez di Argentina ’78

Pubblicato
5 mesi fa:
Novembre 8, 2022
Il Numero Diez è il simbolo di tutti quei giocatori che, grazie alle loro magie e ai loro numeri irripetibili, hanno fatto innamorare milioni e milioni di tifosi sparsi per tutto il mondo. Non è da tutti scegliere questo numero, la pressione e il peso che porta è notevole, in quanto chi lo indossa decide di prendersi la responsabilità di guidare il proprio reparto offensivo. Il Sud America, in particolare Argentina e Brasile, è fertile terra per la nascita di questi talenti unici. Per la Seleção sovvengono i vari Pelè, Rivellino, Zico, Rivaldo, Ronaldinho, Neymar e molti altri; invece l’Albiceleste vanta, su tutti, Maradona e Messi. Questi due giganti inarrivabili, però, mettono spesso in ombra altri Diez argentini, come Mario Alberto Kempes, l’uomo della prima storica vittoria argentina di un Mondiale.
LA GIOVENTÙ
Kempes nasce il 15 luglio 1954 da una famiglia di umili origini a Bell Ville, città a 500 km da Buenos Aires, situata nella provincia di Cordoba. Il padre oltre che a svolgere il mestiere del carpentiere, fu anche un calciatore dilettantistico e, affascinato e colpito da ciò, il giovane Mario, all’età di 9 anni, iniziò a muovere i primi passi nel mondo del pallone. Il suo talento, nettamente superiore a quello degli altri ragazzini, è presto notato e, già a 13 anni, veste il rossoblù della più prestigiosa squadra locale, il Talleres de Bell Ville. Nel 1972 cambia casacca e si trasferisce all’Instituto di Cordoba. La cessione avvenne con un curioso retroscena, ovvero una scommessa tra i presidenti delle due squadre coinvolte, Tossolini del Talleres e il biancorosso Petraglia. Il primo, sicuro delle abilità del suo giovane talento, affermò: “Se alla prima amichevole non segna entro 15 minuti te lo cedo gratis, se invece segna entro i 15 minuti fissiamo un prezzo per il ragazzo”. Finale della storia? Kempes segnerà il primo dei suoi quattro gol in quella partita al 14’ e sarà ceduto per 3 milioni di pesos.
IN RAMPA DI LANCIO
Il palco offerto dall’Instituto, ormai, era troppo piccolo per Kempes, che stava diventando un importante attore della scena sudamericana e che, ben presto, avrebbe varcato le più importanti scene mondiali. Infatti, il soggiorno a Cordoba durò solo un anno e, finita la stagione 1972-1973, si trasferì al Rosario Central. Cambia la maglia, ma non cambia la sostanza. L’esordio arriva il 22 febbraio 1974 contro il Gimnasia la Plata e, in quella stagione, segna 25 volte nel Campionato Nacional, laureandosi capocannoniere della competizione. Kempes, con la sua velocità prorompente e il tiro devastante, incanta tutta l’Argentina, tanto da guadagnarsi il soprannome di El Matador. Nessuno non può non notare e restare indifferente di fronte alle sue prodezze, ha convinto tutti anche il CT Vladislao Cap, che decide di convocarlo per il Mondiale di quell’anno tenutosi in Germania Ovest. Il popolo argentino nutriva le migliori aspettative ed più che mai era colto da un gioioso fremito, dato che la propria nazionale non si qualificò all’edizione di Messico ‘70, non essendo andata oltre il pareggio contro il Perù di Cubillas.
Il girone 4 era formato da Argentina, Polonia, Italia e Haiti. L’inizio non è assolutamente dei migliori, infatti dopo appena 9 minuti gli europei conducono per 2 a 0. Invano l’Argentina tenterà di riaprire il match per 2 volte, di cui una grazie a un assist di Kempes in favore di Heredia. Il cammino dell’Albiceleste prosegue con un pareggio contro l’Italia per 1 a 1 e una schiacciante vittoria per 4 a 1 ai danni di Haiti, che consentono ai sudamericani di passare il girone come seconda. I pessimi presagi iniziali furono confermati dalla fase successiva, nella quale la squadra di Cap venne surclassata dalle rivali, ovvero Paesi Bassi, Brasile e Germania Ovest. Johan Cruijff e compagni impartirono una lezione di calcio; infatti, la partita terminò con un sonoro 4 a 0, dove i sudamericani, a stento, tirarono una sola volta verso la porta avversaria.
Le due partite seguenti mostrarono nuovamente l’assenza di gioco da parte dell’Argentina, che, però, riuscì almeno a totalizzare un risultato utile, ovvero il pareggio contro i tedeschi grazie alla magistrale prestazione del portiere Fillol e al gol di Houseman, nato da uno spunto di Kempes. Terminata l’infelice spedizione, furono apportati dei cambi, su tutti l’esonero del CT, ritenuto come il maggior colpevole della disfatta in Germania. Una volta tornato in patria, però, nella mente del Matador non balenava minimamente l’idea di abbattersi e continuò a trascinare il Rosario Central a suon di gol.
VALENCIA
Le prestazioni, i gol e il titolo di capocannoniere del Campionato Metropolitano del 1976 sono davanti agli occhi e sulla bocca di tutti. Chiunque veda giocare Kempes si innamora delle sue qualità e ne rimane stupito, in particolare a provare ciò è la leggenda Alfredo Di Stéfano, all’epoca allenatore del Valencia. Così, dopo 100 partite e 89 reti messe a segno per le Canallas (“canaglie”), vola in Europa, alla corte della storica leggenda del Real Madrid. Se il primo anno è più di ambientamento al calcio spagnolo, i seguenti sono il simbolo della definitiva consacrazione, Kempes, infatti, è il Pichichi (capocannoniere della Liga) del ‘77 e del ‘78. Nel 1979 trionfa in Coppa di Spagna e nel 1980 può finalmente vincere qualcosa a livello europeo con i Murcielagos (pipistrelli), ovvero la Coppa delle Coppe. La finale contro l’Arsenal si disputò a Bruxelles e terminò solo ai calci di rigore, scaturito da un punteggio rimasto fisso sullo 0 a 0 fino al 120’. Ad aprire la serie fu proprio Kempes, che, presa la solita rincorsa fino fuori dall’area, calciò con forza il pallone. Questa volta, però, il mancino non fu letale, infatti la traiettoria fu pressoché centrale e venne intercettata dal portiere dei Gunners, Patrick Jennings. Il Valencia, nonostante ciò, vinse l’incontro, grazie alle parate di Carlos Santiago Pereira su Brady e Rix. Questa vittoria comportò anche la possibilità di giocarsi un altro trofeo intercontinentale, ovvero la Supercoppa Europea. Gli spagnoli affrontarono nuovamente una squadra inglese, il Nottingham Forrest di Clough, e, come accaduto qualche mese prima, alzarono la coppa al cielo.
SULLA VETTA DEL MONDO
Le prime due stagioni in Spagna diedero occasione a Kempes di apprendere nuove tecniche e schemi, che gli servirono per migliorare fino a diventare un vero e proprio cecchino letale, come oggi è noto a noi tutti. Nonostante ciò, il palmarès era piuttosto scarno, in quanto aveva vinto diversi riconoscimenti individuali, ma neanche un trofeo. Nel 1978, però, l’occasione si presentò alla porta ed era troppo ghiotta per non essere sfruttata. In quell’anno, infatti, i Mondiali si sarebbero tenuti in Argentina. Con l’esonero di Cap nel ‘74, il ruolo di commissario tecnico fu affidato a César Luis Menotti, che rivoluzionò lo stile di gioco e spinse Kempes ad accettare il peso che tutti i bambini sognano: la maglia numero 10. Era iniziata una nuova era. I presupposti per fare bene e per arrivare in fondo alla competizione c’erano e, inoltre, l’Albiceleste non poteva permettersi di deludere nuovamente i tifosi, era in debito dopo l’esclusione di 8 anni prima e la pessima figura fatta in Germania. La strada non era in discesa, tutt’altro, infatti i padroni di casa furono sorteggiati nel girone con Ungheria, Francia e Italia.
In queste prime tre partite Kempes non lascia il segno come previsto, le discrete prestazioni, complici anche le avversarie, non gli permettono di esprimere quanto gli era nelle corde. Dopo le prime due vittorie, entrambe per 2 a 1, contro Ungheria e Francia, a far vacillare le sicurezze degli argentini furono gli Azzurri, che trionfarono grazie alla rete di Bettega. Con 4 punti totalizzati, l’Argentina passò come seconda e fu sorteggiata nel secondo girone con Polonia, Brasile e Perù. Ora le cose erano serie, era giunta la fase finale, le ultime tre partite che avrebbero deciso chi si sarebbe giocato la partita valida per l’assegnazione del trofeo tanto bramato. La prima partita era contro l’unica nazionale europea, la Polonia di Boniek e Lato. In questa partita Kempes confermò il motivo del suo soprannome, 2 reti segnate, la prima al 16’ e la seconda al 72’; decisivo anche il rigore parato a Denya da parte di Fillol. I fantasmi del passato, della sconfitta per 3 a 2 della passata edizione erano scacciati e ora l’Albiceleste era pronta ad affrontare i rivali di sempre i Verdeoro, che avevano già vinto la competizione per 3 volte. La partita terminò a reti bianche, il passaggio del turno era ancora conteso tra tre nazioni, Argentina, Brasile e Polonia, ma solo una avrebbe potuto avanzare fino alla finale. Le due sudamericane erano entrambe a quota 3 e, nel caso avessero vinto entrambe, il passaggio del turno sarebbe dipeso dagli scontri diretti, invece le Aquile bianche dovevano battere la Seleção e sperare in un miracolo da parte del Perù. La nazionale di Menotti, però, non avvertì alcun tipo di pressione in quella partita, e uscì vittoriosa dal campo con il risultato di 6 a 0, grazie alle doppiette di Kempes e Luque e ai gol di Tarantini e Houseman.
L’ultima squadra da battere per aggiudicarsi il titolo erano i Paesi Bassi. Gli Oranje che nell’ultima edizione avevano annichilito la nazionale argentina, rifilandole un sonoro 4 a 0. Il Monumental, con spalti gremiti di tifosi muniti di striscioni, bandiere e coriandoli, è la cornice designata a offrire un match che farà la storia del calcio. Verso la fine del primo tempo, Kempes mette a segno la sua quinta rete nel torneo, in seguito a una veloce incursione nell’area di rigore avversaria. Nel secondo tempo la partita va verso un’unica direzione, l’Olanda domina in lungo e in largo, tantoché trova la via del gol grazie al colpo di testa del subentrato Dick Nanninga all’81’ e, 9 minuti più tardi, colpisce il palo, sfiorando una clamorosa vittoria in extremis. I supplementari decideranno chi, per la prima volta nella sua storia, sarà campione del mondo. Nei supplementari non succede nulla di eclatante, fino al 105’, quando una mischia favorisce Kempes che scaraventa il pallone in fondo alla rete. Gli argentini archiviano definitivamente la pratica al 115’, grazie alla rete di Bertoni, servito dal Diez. Il capitano Daniel Passarella può alzare la coppa al cielo davanti ai suoi connazionali, che non possono più contenere la gioia e, in un clima patriottico, abbandonano i pensieri legati alle sofferenze patite per festeggiare.
GLI ULTIMI ANNI
Nel 1981, lascia la Spagna e torna in Argentina, al River Plate, dove giocherà nello stadio che 3 anni prima gli ha regalato il trofeo più importante. Coi Millonarios vince il Campionato Nacional, interrompendo l’egemonia del Boca Juniors di Maradona. Terminata la stagione in Argentina, gli infortuni iniziano a colpire ripetutamente Kempes, che, di conseguenza, non riesce a essere incisivo come un tempo. A causa dei problemi finanziari del club argentino, torna in Spagna per 4 anni, 2 anni al Valencia, diventata squadra da metà classifica, e gli altri 2 all’Hércules, neopromossa in Liga. Partecipa, senza particolari alti, anche a Spagna ‘82, con la maglia numero 11, in quanto, di sua volontà, aveva consegnato la Diez a Diego Armando Maradona. In seguito alla retrocessione dell’Hércules, milita in diversi club austriaci: il First Vienna, il St. Pölten e, infine, il Kremser. Dice addio al calcio 3 volte. La prima nel 1993 con un’amichevole tra Valencia e PSV e nel ‘95 gioca, sempre un’amichevole, tra Rosario Central e Newell’s Old Boys. Il ritiro definitivo avviene l’anno seguente, nel 1996, a 42 anni, quando ricopriva il ruolo di allenatore-giocatore per il Pelita Jaya, in Indonesia. Appesi gli scarpini al chiodo, intraprende in un primo momento la via dell’allenatore e, in seguito, quella del commentatore sportivo.
Alla Ricerca del Diez
Chi è Zeno Debast, il nuovo talento belga scuola Anderlecht

Pubblicato
6 mesi fa:
Settembre 23, 2022
CHI È ZENO DEBAST, IL NUOVO TALENTO BELGA SCUOLA ANDERLECHT, con già 21 partite con la prima squadra dei biancomalva. Zeno Debast, classe 2003, è nato e cresciuto tra le fila del club dell’omonima città e si è conquistato col tempo il suo spazio. La nazionale del Belgio ha messo nel mirino la manifestazione mondiale in Qatar nel 2022, consapevole che potrebbe essere “l’ultimo ballo” di una generazione di calciatori. Da Lukaku ad Hazard, da De Bruyne a Mertens. Tra queste colonne portanti, sbucano anche alcune nuove leve, che si propongono di ricevere l’eredità di questi campioni.
Zeno Debast potrebbe essere una di queste nuove leve. A soli 18 anni è passato dall’essere una brillante promessa ad una solida certezza del suo club. Sotto la guida di Felice Mazzù, un tecnico che ha dimostrato di saper valorizzare i giovani, può continuare a crescere e migliorare.
Roger Martinez, c.t. dei Diavoli Rossi, ha deciso di dargli fiducia, dopo l’ottimo inizio di stagione. E ieri, nella sfida di Nations League contro il Galles, Debast è sceso in campo dal 1′ nella linea a tre di difesa, completando il terzetto con Alderweireld e Vertonghen. Per lui si è trattato dell’esordio assoluto con la nazionale maggiore.
CONOSCIAMOLO MEGLIO
Zeno Debast è un solido difensore, dal fisico slanciato, rapido e agile, seppur con una muscolarità ancora da sviluppare. Con l’Anderlecht gioca nel ruolo di difensore centrale: più frequentemente braccetto di destra nella linea a tre; anche se a volte come centro-destra in una difesa a quattro. In fase difensiva garantisce buona copertura, ottime abilità in marcatura sull’uomo, garanzie sul gioco aereo ed una presenza fisica importante. Si destreggia anche in fase offensiva, dove sfrutta le sue grandi abilità per via aere, fungendo da minaccia per i portieri avversari.
Tuttavia il suo punto di forza rimane indubbiamente la sua abilità palla al piede. Difensore centrale con indole da regista e tocco educato, è un ottimo fulcro sul quale poggiarsi per imbastire la manovra e possiede grandi abilità di passaggio, sia nel lungo che nel corto. Ambidestro naturale, spesso è lui l’uomo designato ai calci piazzati, quando gioca nell’Anderlecht. Una scelta saggia, se si pensa che sui corner il club rinuncia ad un ottimo colpitore come lui. Talvolta, è stato anche utilizzato come centrocampista difensivo davanti alla difesa, con ruolo di regia.
Deve sicuramente migliorare dal punto di vista delle letture preventive e nella prestanza fisica, che non gli garantisce ancora sicurezze nei duelli spalla contro spalla o nei contrasti fisici. Ma a 18 anni, l’impressione è che sia sulla strada giusta per fare bene.
PROSPETTIVE FUTURE
L’Anderlecht, ma in generale l’intera Jupiler Pro League, è una vera e propria fucina di talenti per i maggiori campionati europei. Tra le fila dei biancomalva sono cresciuti alcuni dei più grandi calciatori belga della storia. E, negli ultimi anni, il club non disdegna neanche le giovani promesse estere, da coccolare e far crescere, arricchendosi. Basti vedere che la squadra di Mazzù in attacco ha due delle maggiori promesse classe 2002: l’italiano Sebastiano Esposito ed il portoghese Fabio Silva.
Zeno Debast potrebbe essere l’ultimo nome sulla lista dei talenti costruiti dall’accademia della squadra belga. Le prospettive, almeno in queste prime uscite in stagione da protagonista, conducono verso quella strada. L’Anderlecht vorrà, comprensibilmente, tenerlo per sè ancora per un po’. Anche perchè finora, Debast ha fatto vedere ottime prospettive e larghi margini di miglioramento, ma niente di concreto. Sembra, dunque, difficile che a fine anno possa arrivare già una sostanziosa offerta da parte di una squadra più quotata.
Tuttavia, se da qui a 18 o 24 mesi Debast dovesse confermare quanto di buono promette, trattenerlo in Belgio sarebbe difficile. Sia perchè, come detto, spesso il campionato belga funge da rampa di lancio per i giovani talenti. Sia perchè, probabilmente, sarebbe lo stesso Anderlecht a lasciarlo andar via, seppur a malincuore, incassando una lauta cifra, da reinvestire.
La duttilità tattica di Debast lo pone come un ottimo profilo per una squadra che propone un calcio cosciente e ragionato. Nei cui schemi tattici, il classe 2003 possa essere un protagonista di primo livello.
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