Già qualificati ai playoff e con molte probabilità di conservare la quarta posizione, gli Utah Jazz costituiscono la vera e propria sorpresa nella Western Conference della regular season NBA, e non solo per il fatto di essere riusciti, dopo il 2011-2012, a giungere alla tanto agoniata post-season. L’ultima volta, nel lontano 2011-2012, erano stati gli Spurs a far fuori la franchigia di Salt Lake City con un netto 4-0.
Quest’anno però, i Jazz approdano ai playoff dall’entrata principale e sembrano non volersi accontentare del ruolo di comprimari, viste anche le ampie possibilità di poter proseguire nel cammino. Perché ad Ovest, per il momento, solo le solite Golden State e San Antonio sembrano praticare un altro sport. Andiamo a scoprire insieme quali sono state le chiavi vincenti di coach Quin Snyder e della società per arrivare fin qui.
LA TRADE ESTIVA
In un anno in cui i grandi nomi non hanno saputo confermarsi dopo le abbondanti pioggie di dollari della trade estiva, Utah è stata una delle poche società a spendere bene sul mercato. Gli “stagionati” Boris Diaw e Joe Johnson hanno confermato di essere ancora dei grandi atleti in un campionato così usurante come quello di NBA. Il francese, di provenienza San Antonio, ha messo il suo bagaglio di 34 primavere al servizio della squadra: parte nel quintetto titolare ma viene poi gestito alla perfezione, giocando sino ad ora 17 minuti di media a partita. Le sue ottime letture del gioco, sia in fase offensiva che difensiva, hanno garantito una maggiore quadratura. Dall’altra parte parliamo di un grandissimo tiratore della lega, un pezzo da novanta dall’arco. A Salt Lake City sono stati bravi a capire che, dopo l’ottima annata con Miami del 2015-2016, Johnson poteva ancora dare qualcosa al grande basket. In realtà le sue percentuali sono calate di molto rispetto ai periodi d’oro di Brooklyn, dove non ha raccolto quanto seminato nella grande mela. Ma nel complesso, il suo apporto è fondamentale. Grande colpo anche quello di George Hill, che a 30 anni è tutto tranne che vecchio. L’ex Indiana Pacers è sempre stato il classico “buon giocatore”, sempre sul pezzo ma mai troppo in copertina. Toltosi di dosso l’ombra di Paul George si è dovuto prendere maggiori responsabilità, che han portato maggiori successi: a livello di percentuali è migliorato tanto e sta sfiorando i 16pt di media e diventando un pilastro del quintetto titolare.
LE BASI SOLIDE PER IL FUTURO
Utah non è diventata una grande squadra dall’oggi al domani, perché le basi c’erano e si presentavano molto solide. I vari Gordon Hayward, Rudy Gobert e Rodney Hood sono uno dei tridenti più rosei che si possano avere. Il playmaker di Butler sta confermando una crescita continua da almeno tre anni che lo ha portato a questa stagione fantastica condita dall’All Star Game, per nulla casuale. Oltre a ciò, Gordon schiacchia, tira da tre, penetra. Un giocatore completo che quest’anno, per movenze e fisicità, può ricordare Russel Westbrook. Il francese Gobert è praticamente diventato il simbolo transalpino del campionato, in una quasi naturale staffetta con Tony Parker. Migliorato a livello di punti e rimbalzo, si conferma un gran difensore e magifico stoppatore. Le sue giocate sono virali sui social ormai. Chiudiamo con Rodney Hood, il violino della scorsa stagione che quest’anno, pur dovendo rinunciare a qualche punto, ha imparato a suonare con il resto della banda.
Che siano i Clippers, attuali quinti in classifica, o i temibilissimi Oklahoma City Thunders, per ora sesti, per Gobert e compagni quest’anno potrebbe essere davvero di quelli importanti.