Cosa ci portiamo dentro dopo uno dei Mondiali più inspiegabili della storia? Innanzitutto quella sensazione di impotenza di fronte agli eventi che giornalisticamente non si provava da tanto: in un calcio, soprattutto europeo, divenuto ormai terreno di conquista di poche (e ricche) squadre elette, abbiamo recuperato e ritrovato la primordialità dello sport più bello al mondo che mai come quest’anno ha privilegiato i normal one piuttosto che gli special. Ma, per non ridurre un mese di competizioni ad una piacevole sensazione di stupore, possiamo affermare che in questo mondiale ha prevalso su tutto l’insieme, il gruppo, l’unità d’intenti e la voglia di cooperare con i compagni. A ciò si è chiaramente unito un generale livellamento verso l’alto di quasi tutte le nazionali del mondo, a partire da quella Panama che doveva essere la cenerentola della competizione e che ha finito per stupire per organizzazione e forza di volontà nonostante i risultati, l’ultima cosa alla quale si puntava nell’istmo.

Per assurdo, nonostante si avanzi sempre di più a livello tecnologico (plauso al VAR che ha aiutato in una buona parte di azioni dubbie) , si è tornati a giocare un calcio semplice, quasi scarno ma efficace, quello che avevamo inventato (o valorizzato) noi stessi e che tanto era stato criticato: una difesa solida, dei giocatori abili nella transizione offensiva e ripartenze fulminee capaci di tagliare le gambe all’avversario. La Svezia è stata la maestra assoluta di questo mantra semplice a parole ma difficile nei fatti, soprattutto perché considerata una delle squadre tecnicamente più povere del torneo che ha saputo mettere in luce tutti i pregi dei propri interpreti e pochissimi difetti: le storie di Berg e Toivonen, considerati troppo underdog rispetto a quello che hanno saputo mostrare in campo, ne sono l’esempio. Merito di coach Jan Andersson, che con coerenza ha premiato in toto gli uomini capaci di eliminare Olanda ed Italia arrestando il proprio cammino solo ai quarti di finale. Medesimo discorso per l’Uruguay di mister Tabarez, un esempio di vita prim’ancora che di calcio: è l’organizzazione tattica che ha permesso a Suarez e Cavani, con Bentancur solida spalla dietro le due punte, di esprimersi al meglio. L’Uruguay è stato coerente ed immagine del suo allenatore fino alla fine: ha saputo eliminare un Portogallo Ronaldo-dipendente (ripeto,non è l’anno degli special..) provando a lottare con i suoi malanni fino al 90esimo anche quando l’avversario era insormontabile. Contro la Francia la fatica a costruire gioco e le gambe pesanti hanno fatto il resto dopo l’infortunio di Cavani. Le lacrime di Gimenez mentre era in barriera su una punizione allo scadere erano il manifesto delle cose: siamo stanchi ed esausti, ma non gettiamo la spugna. Questo è uno sport di pulsioni, quello che fa balzare ancora Tabarez dalla sedia dopo un gol dei suoi ragazzi nonostante la malattia. Non sarà un mondiale vinto, ma una vita si.

Doverosa una chiosa su Inghilterra, Belgio e Croazia, che per una vita hanno giocato la famosa palla alta e pedalare ma che hanno sfiorato il sogno proprio grazie al cambiamento di tendenza: gli inglesi questa volta sono stati molto più belli da vedere, con una manovra stile Tottenham che a tratti appariva la migliore del lotto. Southgate ed il suo panciotto nelle vesti di nuovo Paisley, che fu il primo a criticare l’immobilismo dei difensori nella manovra offensiva degli anni settanta. Martinez è invece il nuovo Thys in salsa catalana, stesso schema e stessa mentalità: 3-4-3 di tanta qualità che predilige il possesso alla copertura. Ma, ancora una volta, nonostante l’efficacità di un Hazard versione pallone d’oro, gli arzigogoli, le stuccate ed i sensazionalismi hanno premiato in parte. Dalic e la sua Croazia sono già nella storia balcanica: ha costruito un miracolo partendo dagli spareggi qualificazione, quando fu gettato tra i leoni con un’esperienza relativa. Ha creato il clima, posto le basi per un’idea di gioco ed ha lasciato fare alla generazione di talenti che un paese di 4 milioni ha saputo sfornare grazie alla propria mentalità che da anni la fa da padrona in diversi sport.
E ALLA FINE..
Le parole importanti di questo mondiale: gruppo, organizzazione, comunità d’intenti, qualità. In poche parole, la Francia. Un paese multiculturale che ha saputo riorganizzarsi federalmente dopo il Mondiale 2010 e che ha saputo attingere il meglio da tutto: l’interno maglia firmato Nike diceva “les differences nous unissent” (le differenze ci uniscono) ed è così che i riflessi di Lloris,la fisicità e il senso della posizione di Varane e Umtiti, l’essere semplici di Hernandez e Pavard, il correre a più non posso per un obiettivo di Kanté, il partire come un cartoon di Mbappé, l’essere sempre nel posto giusto con sapienza di Matuidi ed il lavorare duramente per la squadra di Giroud e l’essere disponibili di Tolisso e Nzonzi sono diventati l’ego di un paese che si riscopre fiero di essere così all’avanguardia. Deschamps ha messo tutto nel calderone ed ha riscoperto una cosa semplice: coprirsi bene per poi far giocare i ragazzi terribili come vogliono. Ed ha premiato. Discorso a parte per un Pogba che, talmente affascinato dalla normalità del team, è maturato ed è diventato così semplice da rivelarsi un fenomeno: coperture preventive, passaggi illuminanti, faro per i compagni. Che questi valori costituiscano un esempio, non solo nel calcio.