Ribelle, raffinato, guerriero. Tre aggettivi per un unico uomo.
Mihajlovic, un diamante forgiato dall’impegno e dal talento puro, quello del suo piede sinistro, capace di disegnare parabole da punizione da far invidia a Kandinsky.
E con quel piede ha costruito il suo destino, e una carriera da far invidia a chiunque.
LA CARRIERA DI MIHAJILOVIC
Muove i primi passi nel Borovo, squadra della municipalità nella quale cresce e che lascia per approdare nel calcio che conta. La Stella Rossa nota il suo valore e lo acquista dal Vojvodina nel 1990, club col quale vince nello stesso anno la Coppa Campioni (attuale Champions League, ndr). E proprio nel club russo mostra la sua tecnica sui calci piazzati: un suo tiro fu così potente da esser studiato dal dipartimento di fisica dell’Università di Belgrado. I fisici calcolarono una velocità massima di 160 km/h.
Nel 1991, a 22 anni, insieme alla sua famiglia, lascia la sua città natale, Vukovar, per mettersi in salvo dalla guerra, trasferendosi a Belgrado. Sarà la Roma a portarlo in Italia, con una valigia carica di sogni e speranze. Ma proprio nella Capitale non riesce ad affermarsi, tanto da partire in prestito alla Sampdoria nel 1994. Ed è proprio da qui, che inizia il suo sogno.
IL SOGNO DI MIHAJLOVIC
Se prima giocava da esterno sinistro, a Genova giocherà da libero, dove si specializzerà ancor di più nei calci piazzati. Ancora oggi risulta negli annali della Serie A: detiene il record di calci di punizione segnati, ben 28, davanti ad un nome importante come quello di Pirlo.
Nel 1998 si trasferisce alla Lazio, dove trascorrerà sei stagioni all’insegna di prestazioni e gol eccellenti. Il serbo era una sentenza: memorabile la partita del 13 dicembre 1998, quando Mihajlovic segnò una tripletta da punizione diretta, con l’ultima rete segnata da 35 metri. Metterà presto in mostra il suo carattere fumantino, ma poco importa: la sua carriera, conclusasi col passaggio all’Inter, è stata brillante.
Ma non tutte le storie hanno un lieto fine.
LA MALATTIA DI MIHAJILOVIC
Nel 2019 a Mihajlovic viene diagnosticato un brutto male, una leucemia, mentre la sua carriera di allenatore procedeva spedita sulla panchina del Bologna. Ha combattuto una guerra lunga tre anni, con al fianco i migliori alleati possibili: la famiglia, gli amici, il campo. La prima fase la vince, nella seconda non ce la fa.
Ma è riuscito dove pochi ce l’hanno fatta, portando dalla sua parte anche gli alleati avversari. Ci ha lasciati presto, troppo presto, e non diciamoci che qualcuno da lassù lo ha chiamato perché ha un piano più grande per lui. Accogliamo semplicemente, e in silenzio, un’assenza difficile da digerire.
Grazie Sinisa, che la terra ti sia lieve.