Il Perù del Tigre Gareca raggiunge la finale di Copa América dopo ben 44 anni, battendo il Cile in semifinale con un netto 3-0. Quella che appare, ed è stata etichettata, come la squadra sorpresa del torneo, rappresenta invece il frutto di un triennio più che positivo che merita, come culmine ultimo di una generazione dalle ampie possibilità, di giocarsi una partita secca contro i padroni di casa del Brasile, Domenica al Maracanà.
In quella che sarà ricordata come una competizione imprevedibile, con sintomi di bipolarismo alle volte causato dal VAR, i peruviani si sono rivelati la squadra più equilibrata del torneo nonché quella che ci ha messo più tempo per carburare. La percezione di trovarsi di fronte ad un’ottima squadra fu cosa nota già a Foxborough, durante la Copa América Centenario del 2016, quando fu proprio il Brasile a cadere sotto i colpi del Perù subendo l’eliminazione già alla fase a gironi: solo i rigori contro la Colombia, ai quarti, relegarono la blanquirroja all’eliminazione dal torneo. Le esperienze inebrianti furono il motore per la qualificazione ai mondiali di Russia, con una quinto posto raggiunto per il rotto della cuffia grazie alla differenza reti, proprio sul Cile semifinalista di ieri.
Corsi e ricorsi e lo spareggio contro la Nuova Zelanda che fu una mera pratica per raggiungere la fase a gironi, trainati dal capitano Jefferson Farfán, che dovette caricarsi la squadra sulle spalle a causa dell’assenza di Guerrero per squalifica. Anche qui, nonostante un gruppo difficile con Danimarca, Francia ed Australia, i sudamericani mostrarono carattere, pressing ed un giro palla sufficientemente positivo per pensare di passare il turno: mancò un pizzico d’esperienza mondiale, con le sconfitte contro Francia e Danimarca giunte per disattenzioni difensive dopo due partite di livello. La vittoria contro l’Australia fu un bel modo per despedirse anche se portò con sé un po’ di amaro in bocca per quello che sarebbe potuto essere.

Foto: profilo Instagram @tufpfoficial
IN QUESTA COPA AMÉRICA
Ad un anno di distanza dalla Coppa del Mondo, el Tigre decide di contare sugli stessi uomini di un anno fa, senza stravolgere schemi e logiche già assimilate con armonia. Nello schema di partenza, davanti al portiere Gallese si staglia lo stesso 4-2-3-1 visto da Saransk a Sochi. Si punta sulla velocità dei terzini Trauco ed Advíncula, sulla fisicità e possesso dei mediani Tapia (grande stagione al Willem II) e Yotún, con una trequarti effervescente e ricca di possibilità, dalla rapidità di Farfán, Carrillo e Cueva sino alla qualità di Edison Flores, Christofer Gonzales ed Andy Polo. Giungono critiche per l’atteggiamento difensivista: i peruviani notano un assetto basato su un 4-5-1 e criticano a Gareca la scarsa voglia di attaccare: contro il Venezuela, lo sterile 0-0 metterà a nudo la volontà primaria di non prenderle, nonostante per caratteristiche i peruviani debbano fare la partita per stupire. Giunge poi la vittoria contro la Bolivia, quando lo schema è tornato quello classico e Farfán e Paolo Guerrero hanno carta bianca lì davanti.
La squadra si gioca lo spareggio qualificazione contro il Brasile, forte di un equilibrio ritrovato e di una difesa solida centralmente grazie ad i nuovi innesti Miguel Araujo (Basilea) e Luis Abram (Velez): la qualità di Everton e la bolgia dell’Arena Corinthians diventano un incubo culminante con il 5-0 finale. L’allenatore è messo alla gogna ed etichettato come inadatto al ruolo tout-court, mentre la qualificazione giunge grazie ad uno dei migliori terzi posti (con 4 punti).
Il quarto contro l’Uruguay dà ragione però all’allenatore: questa è una squadra che sa difendere, anche quando c’è da mettere in pratica un catenaccio degno del miglior Helenio Herrera. I charrua erano la squadra più bella da vedere del torneo, con un’uscita palla lineare e la capacità di colpire alla prima occasione utile grazie a Suárez e Cavani: il Perù subisce ma sa attutire le botte grazie alla “barriera corallina” del coach argentino, che lascia Tapia incollato ai centrali difensivi e permette ai terzini e le mezze ali di creare una sorta di barriera tra le linee di passaggio che causerà solo tre tiri in porta per la squadra di Tabarez. Gli 0 tiri in porta suoneranno come una beffa quando alla girandola di rigori saranno proprio i peruviani ad avere la meglio. Ma se sai attaccare come un giaguaro della regione della Montaña, difficilmente ne dimentichi i precetti: contro il Cile in semifinale ci si aspettava una partita simile, con i campioni in carica del 2015 e 2016 che avevano programmato una partita tutto possesso e fasi morte della gara.

La posizione media dei giocatori del Perù ieri sera contro il Cile.
Ed è qui che l’allenatore e la squadra si prendono la loro rivincita: il 4-2-3-1 questa volta è molto più alto e si trasforma in un 3-4-3 che spegne gli istinti più reconditi di un centrocampo così ruvido e qualitativo come quello formato da Pulgar, Vidal e Aranguíz. Luis Advíncula ara la fascia destra in un’insolita posizione di laterale di centrocampo, con Trauco che mette da parte la fase offensiva per aiutare i due centrali. Piccola nota per il difensore Luis Zambrano, un mix di letture corrette e fisico che schianta sul nascere qualsiasi tentativo avversario (3 salvataggi riusciti, 6 duelli su 8 vinti). A centrocampo, ad Advincula si affiancano i due mediani Tapia e Yotun, con Flores che arretra per trasformarsi in un’ala sinistra a tutti gli effetti. L’attacco si fonda sull’ispirazione di Guerrero e sulla rapidità in dribbling di Carrillo e Cueva per ripartire con ordine. Il primo tempo è soffocante, con lo 0-2 che lascia al Cile la sola speranza di un calo fisico. Ma a Porto Alegre il tempo è mite ed il Perù, pur retrocedendo il baricentro, non lascia la manovra in mano agli avversari. Lo 0-3 finale ed il rigore di Edu Vargas, che tenta un’inutile cucchiaio, saranno lo specchio della partita.
GUERRERO E LA FINALE
Se Farfán aveva regalato il sogno mondiale all’amico Guerrero, che lottava contro un passato tumultuoso ed una squalifica Fifa, è stato lo stesso Paolo a sdebitarsi ieri sera con il suo amichetto di Lima, come quando da adolescenti difendevano assieme i colori dell’Allianza. Con Jefferson assente, è stato il nueve ad esibire una prestazione degna della sua carriera e delle sue doti: il Perù merita la finale anche per la loro fedeltà e per la voglia di non mollare mai. Qualche giorno fa, Guerrero scriveva su Instagram:
“Lavoriamo e lottiamo uniti contro le avversità, il peruviano è più forte di tutto!”.
Ha mantenuto la promessa, per il suo amico e per il suo popolo, sognando di portare a casa il titolo continentale più importante per la carriera di un sudamericano. Come diceva Yasmina Khadra, nessuna nazione può sopravvivere senza miti, e nessun giovane può crescere senza idoli. Anche se con mille difetti, il Perù sa di averne uno che potrà tenerlo in vita anche dopo la finale del Maracanà.
L’immagine di copertina è tratta dal profilo Instagram @tufpfoficial