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I Rangers sono Campioni di Scozia

Annate da sogno

I Rangers sono Campioni di Scozia

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Il Rangers Football Club è campione di Scozia.

Una frase che non si sentiva da ben dieci anni; tanto è passato dall’ultima volta che i tifosi dei Gers hanno potuto pronunciare con fierezza queste parole.

Era infatti il 2011 quando i protestanti di Glasgow festeggiarono il loro 54° titolo nazionale, vincendo l’allora Scottish Premier League con 1 punto di vantaggio sugli eterni rivali del Celtic.

Nel mezzo un fallimento societario, la ripartenza dalla quarta divisione del calcio scozzese (all’epoca nota come Third Division e attualmente conosciuta invece come Scottish League Two, ndr) – la più bassa nel sistema professionistico nazionale -, la risalita fino alla massima serie e un dominio Celtic di ben nove anni; tanti i campionati conquistati consecutivamente dagli Hoops in questo lasso di tempo.

Il Rangers Football Club è campione di Scozia per la 55ª volta.

Un record mondiale. Nessuna altra squadra di calcio professionistico ha infatti mai vinto 55 campionati nazionali prima dei Rangers. Nemmeno il Linfield Football Club, leggendaria società di Belfast. I nordirlandesi attualmente sono infatti fermi a 54 trionfi. Numero che potrebbe però crescere nei prossimi mesi, qualora i Blues dovessero vincere ancora l’IFA Premiership, competizione nella quale oggi sono primi in classifica con 2 punti di vantaggio sul Coleraine a 11 partite dal termine.

IL MANAGER

Steven Gerrard è campione di Scozia per la prima volta.

Per la leggenda del Liverpool si tratta anche del primo trofeo in assoluto da manager.

Frutto di un’annata semplicemente perfetta di quella creatura che l’ex centrocampista inglese sta allevando con intelligenza e passione da ormai tre stagioni.

32 partite disputate. 28 vittorie. 4 pareggi. 0 sconfitte. 77 goal segnati. 9 subiti. 24 clean sheets. 88 punti realizzati. 20 punti di vantaggio sul Celtic, secondo in classifica, al momento del successo matematico. Campionato vinto con 6 gare d’anticipo.

Numeri che lasciano a bocca aperta e sottolineano la grandezza di un trionfo arrivato proprio nell’anno in cui i cugini del Celtic sognavano di fare la storia vincendo il loro decimo campionato consecutivo. Un sogno letteralmente fatto a pezzi dalla squadra di Gerrard, sotto i colpi della concretezza e del bel gioco.

Il tutto nella stagione in cui i Gers si sono ritrovati a giocare in stadi vuoti, in un mondo messo in ginocchio da una pandemia, in un Ibrox deserto.

Un trionfo di questa portata – e atteso per così tanto tempo – avrebbe meritato di essere vissuto ogni fine settimana tra l’abbraccio dei propri tifosi. Così come lo avrebbe meritato il Liverpool nel 2020, quando il ritorno dei Reds sul tetto d’Inghilterra dopo ben 30 anni fu festeggiato a porte chiuse. Così come lo avrebbe meritato il Leeds United, capace la scorsa stagione di vincere la Championship e risalire in Premier League a sedici anni dall’ultima volta.

Tre lunghe attese, tre storici successi festeggiati forzatamente davanti a tribune vuote, a seggiolini spogli, a gradinate mute.

Un distanziamento dal proprio pubblico immeritato, ma necessario (le scene d’assembramento di migliaia di tifosi all’esterno dei cancelli di Ibrox, così come in precedenza di Anfield ed Elland Road, dopo questi titoli non possono infatti essere considerati come degni festeggiamenti. Anzi, in un mondo che fatica a rialzarsi a causa del continuo diffondersi del Covid-19, scene di tale mancanza di senso civico corrispondono a comportamenti da censurare e non glorificare).

 

IL PROGETTO

Il Rangers Football Club è campione di Scozia per la 55ª volta e questo è il grande trionfo di Steven Gerrard.

Non si può infatti che partire da lui e dal grande lavoro che lui e il suo staff sono riusciti a portare avanti negli ultimi tre anni in quel di Glasgow.

“Quando ricevetti la chiamata dei Rangers, presi una decisione di pancia. Sentì subito una sensazione differente allo stomaco, rispetto a quando avevo ricevuto altre opportunità. Ebbi subito un sentore che qualcosa di speciale stava accadendo e che i Rangers erano la squadra perfetta per me”.

Era l’estate del 2018 e Steven Gerrard si presentò con queste parole nella sua prima conferenza stampa come nuovo manager dei Gers.

Qualcosa di speciale. Ciò che in Scozia, alla sua prima esperienza da allenatore di una prima squadra, Stevie G – come amiamo ancora chiamarlo tutti noi figli innamorati di quello splendido calciatore che è stato – è riuscito a fare.

Ha studiato giorno dopo giorno. Si è integrato alla perfezione nel nuovo ambiente (facilitato indubbiamente in questo rapido processo dal suo essere britannico). Ha creato un gruppo affamato, una squadra bella da veder giocare, un team vincente.

Lo ha fatto portando a Glasgow moltissimi giocatori provenienti dalle maggiori serie calcistiche inglesi (su tutti il leggendario Jermain Defoe). Pescando soprattutto talenti in Belgio, come Ianis Hagi e Kemar Roofe. Nel campionato croato, come Borna Barisic e Nikola Katic, in quello italiano (vedasi l’ex Bologna Filip Helander) e in quello svizzero (Cedric Itten). E ancora francese e messicano. Convincendo poi diversi giocatori già presenti in altri club scozzesi di Premiership a sposare il suo progetto.

Lo ha fatto gradualmente, alzando sempre più l’asticella dei risultati da raggiungere anno dopo anno. Lo ha fatto con pazienza, facendo crescere giornalmente i suoi ragazzi e nello stesso tempo crescendo con loro.

Lo ha fatto con l’aiuto di Gary McAllister e Michael Beale, suoi viceallenatori per tutto il corso di questa sua avventura ai Rangers (e con i quali aveva già avuto la possibilità di confrontarsi nella sua lunghissima esperienza di vita al Liverpool).

Il suo primo anno fu subito secondo posto in campionato, quarti di finale di Scottish Cup, semifinale di Scottish League Cup e gironi di Europa League. Il secondo anno fu nuovamente secondo posto in campionato, ancora quarti di finale di Scottish Cup, finale di Scottish League Cup e ottavi di finale di Europa League.

Il terzo – quello in corso – vittoria del campionato, quarti di finale di Scottish League Cup, un terzo turno di Scottish Cup ancora da giocare l’aprile prossimo contro il Cove Rangers FC e ottavi di finale di Europa League da disputarsi nelle prossime settimane contro lo Slavia Praga, con la possibilità dunque di accedere ai quarti.

Un miglioramento continuo. Nei risultati e ovviamente sul campo, dove i Rangers oggi sono una delle squadre più temute. In campionato non hanno infatti perso una singola gara. In Europa League neppure. Solamente il St. Mirren il 16 dicembre scorso è stato in grado di infliggere quella che fino ad ora è l’unica sconfitta stagionale per i Rangers, caduti 3-2 quella notte ed eliminati dalla Coppa di Lega scozzese.

In Premiership ha vinto entrambi gli Old Firm giocati fin qui contro il Celtic. Lo ha fatto realizzando tre goal e non subendone alcuno. E il 21 marzo prossimo, in quella che sarà anche l’ultima partita delle 33 che compongono la ‘fase regolare’ della stagione (seguita poi dai 5 incontri tra le prime sei della classifica, come prevede il format del campionato scozzese nella sua fase conclusiva, ndr), avrà la possibilità di fare tripletta.

Al Celtic Park si disputerà infatti il terzo Old Firm della stagione e gli Hoops accoglieranno sul proprio campo i neolaureati campioni di Scozia. Nemmeno il più sapiente romanziere avrebbe potuto scrivere un finale migliore per il ritorno al titolo dei Gers.

IL CAPITANO

Il Rangers Football Club è campione di Scozia per la 55ª volta e questo è il grande trionfo dei 29 calciatori che ne compongono la rosa, capaci di approfittare dell’anno in cui i rivali del Celtic si sono disuniti nello spogliatoio (tra i motivi che hanno portato all’addio in corsa del manager Neil Lennon, ndr) e sciolti come neve al sole, dopo memorabili, trionfali e indimenticabili stagioni sotto la guida di Lennon (uno e bis), Brendan Rodgers e Ronny Deila.

È il trionfo dei giocatori, a cominciare da James Tavernier, capitano, terzino destro e allo stesso tempo bomber e assist-man dei Gers.

Il natio di Bradford, città inglese che dista poco più di 100 km da quella Liverpool che Gerrard conosce molto bene, è l’uomo simbolo dei Rangers.

Arrivato a Glasgow nel 2015 dopo moltissime esperienze tra le diverse divisioni del calcio inglese, è il giocatore in rosa da più tempo e che ha vissuto più di tutti sulla propria pelle la rinascita del club.

Lo ha fatto con la fascia di capitano al braccio e la voglia di dimostrare di poter essere uno dei migliori terzini al mondo. O quanto meno uno dei terzini più moderni.

Instancabile corridore, crossatore eccellente, glaciale dal dischetto del rigore e pericolosissimo anche sui calci di punizione.

 

Dove si trova oggi un terzino capace di realizzare 17 goal e 15 assist in 41 partite? Solo a Glasgow, solo in maglia Rangers, dove Tavernier quest’anno è stato capace di mettere in sequenza questi numeri tra campionato e coppe (sia nazionali che europee).

Più attaccante degli attaccanti. Nessun altro compagno di squadra ha segnato infatti più goals di lui.

Più assist-man dei fantasisti. Nessun altro giocatore dei Gers ha offerto più passaggi vincenti in questa stagione del nazionale inglese.

“Non ci sono parole che possono descrivere quello che abbiamo fatto. Sono assolutamente entusiasta per il club, i fans, i giocatori e tutti i coinvolti. Soprattutto per i fans che hanno dovuto vivere momenti difficili per lungo tempo. Io ho vissuto come sulle montagne russe da quando sono arrivato qui e questo successo è qualcosa di monumentale”.

Così ha commentato la vittoria del titolo a Rangers TV.

Monumentale. Come il giocatore che lui è diventato sotto la guida di Gerrard.

I VETERANI

È il trionfo anche di Alfredo Morelos e Ryan Jack, unici altri due giocatori – oltre al già citato Tavernier – attualmente nella rosa dei Rangers a essere arrivati prima di Steven Gerrard nel club.

Il centravanti colombiano per la tifoseria è un vero e proprio idolo. El Bufalo, come è conosciuto da quelle parti.

Nelle ultime stagioni l’attacco dei Light Blues è sempre stato sorretto dai suoi goals. Potente, estroso, dal temperamento sanguigno (a volte fin troppo). Sotto la guida di Gerrard, stagione dopo stagione è riuscito a migliorare costantemente quel comportamento in campo che a volte lo portava a ricevere troppi cartellini rossi. Lo ha fatto con l’intelligenza di chi ha capito come controllarsi per non provocare danni alla squadra nei momenti più importanti. Mettendo il gruppo davanti a se stesso. Come solo i grandi sanno fare.

Il mediano scozzese, insieme a Scott Arfield (primo acquisto di mercato dell’era Gerrard, ndr), è invece il centrocampista più utilizzato dal tecnico inglese dal suo arrivo ai Rangers.

Veterano della categoria, grazie alla sua lunga esperienza precedente nell’Aberdeen, Ryan Jack è un altro degli uomini simbolo di questo trionfo dei Gers.

Così come lo sono Allan McGregor e Steven Davis, unici due calciatori capaci di vincere titoli con i Rangers pre e post fallimento.

Entrambi hanno infatti conquistato quattro Premiership a testa con il club di Ibrox. Gli ultimi tre campionati vinti tra il 2008 e il 2011, prima del crollo della società nel 2012 e la ripartenza dalle serie minori, e questo primo titolo post-rinascita.

Due assolute leggende di categoria. McGregor, portierone 39enne di Edimburgo. Cresciuto nelle giovanili dei Rangers, titolare nella Nazionale scozzese, un vero e proprio usato sicuro.

Davis, insostituibile centrocampista nordirlandese, nato a Ballymena 36 anni fa e diventato dal 2005 ad oggi il giocatore con più presenze (124) nella storia della Nazionale che un tempo fu di George Best.

LA REALIZZAZIONE DEL SOGNO

È il trionfo anche di Jermain Defoe, sublime centravanti londinese al suo primo campionato vinto da giocatore. Mai, infatti, nelle sue precedenti esperienze inglesi con le maglie di Charlton, West Ham. Bournemouth, Tottenham, Portsmouth e Sunderland, e quella in MLS con il Toronto FC, aveva vinto un campionato.

Motivo per cui l’orgoglio del nazionale inglese ai microfoni di Rangers TV dopo questo successo era davvero tanto:

“Ho dedicato tutta la mia carriera e la mia intera vita a momenti come questo. Ho sempre saputo che a un certo punto nella mia carriera sarebbe arrivato un successo così e questo è ciò che mi ha sempre motivato ad andare avanti a essere onesto. Poi con questo gruppo di giocatori, questo staff, le persone in cucina, le ragazze coinvolte della comunicazione, è stato davvero un lavoro di squadra. Questo è il motivo per cui si gioca a calcio, per momenti come questo. Non si dimenticheranno mai momenti del genere. È stato davvero emozionante. La prima cosa che ho fatto è stata chiamare mia madre”.

È il trionfo di Connor Goldson e di Ryan Kent, unici due calciatori ad essere scesi in campo in tutte e 32 le partite di campionato giocate dai Rangers in questa stagione. Il roccioso difensore ex Brighton & Hove Albion e la sorprendente ala d’attacco ex giovanili del Liverpool (con la prima squadra ha disputato solamente una gara in FA Cup contro l’Exeter City nel gennaio del 2016, primo anno di Jürgen Klopp alla guida dei Reds, ndr). Pedine intoccabili nel 4-3-3 di Gerrard.

È il trionfo del progetto Rangers. Il ritorno dei Gers a quella che prima del tracollo era sempre stata la normalità. La rinascita di una nobile decaduta del calcio scozzese. Audace nell’affidarsi a un tecnico che in precedenza aveva maturato esclusivamente esperienza nelle giovanili del Liverpool. Abile nel sognare, costruire e realizzare un successo indelebile.

Il Rangers Football Club è campione di Scozia. Una frase che ora può essere finalmente ripronunciata.

[Questa la rosa dei Rangers vincitori della Scottish Premiership 2020/2021: PORTIERI– McGregor, Firth, McLaughlin, Kieran Wright. DIFENSORI– Tavernier ©, Bassey, Simpson, Helander, Goldson, Patterson, Katic, Balogun, Barisic, Mayo. CENTROCAMPISTI – Hagi, Jack, Davis, Zungu, Aribo, Kamara, Scott Wright, Arfield. ATTACCANTI – Defoe, Itten, Kent, Morelos, Stewart, Roofe, Middleton. STAFF – Gerrard, McAllister, Beale, Stewart, Milsom, Culshaw].

Fonte immagine in evidenza: profilo Instagram ufficiale dei Rangers FC

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L’ultima grande Lazio: la stagione 1999/2000 e la Champions League

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La Lazio torna dopo due anni di assenza a competere nella Champions League. I biancocelesti, nel gruppo E con Atletico Madrid, squadra con cui esordirà questa sera, Celtic e Feyenoord, potranno dire la loro per il passaggio del turno. Sarri dovrà trovare la migliore Lazio possibile nonostante il brutto avvio in campionato ma che ha fatto vedere le migliori qualità ad esempio nella vittoria contro il Napoli. Fra giocate di squadra nello stretto ed individuali, come Luis Alberto, probabilmente il miglior giocatore in questo momento, la formazione schierata dal tecnico toscano cercherà di esprimere il calcio migliore da proporre contro un avversario ostico, che preferisce lasciar giocare gli avversari.

A ritrovarli nel loro esordio della massima competizione europea sarà l’Atletico Madrid, con il Cholo Simeone sempre a guidare i Colchoneros. Proprio l’argentino ha vissuto uno dei migliori momenti della carriera nella Capitale, sponda ovviamente biancoceleste. All’epoca giocatore e centrocampista, Simeone ha fatto parte di una rosa straordinaria che ha conquistato il titolo di campione d’Italia nella stagione 1999/2000. Proprio in quella cavalcata, parallelamente alla Serie A, la Lazio ha raggiunto il miglior risultato di sempre nella sua storia in Champions League.

Andiamo quindi a scoprire la rosa diventata storica per il club visti i traguardi raggiunti.

“Mi viene la pelle d’oca ricordando gli anni in cui i tifosi mi amavano tantissimo e mi davano sempre tanto calore. Sono stati anni di calcio ben giocato qui e abbiamo vinto tanto insieme”.

Diego Simeone nella conferenza stampa pre Lazio-Atletico Madrid

LA ROSA CAMPIONE D’ITALIA

La miglior Lazio capace di raggiungere i quarti di finale della Champions League ha una rosa storica e iconica per ogni tifoso della squadra capitolina. Guidati da Sven-Goran Eriksson, allenatore svedese conosciuto per il suo gioco combattivo e cinico, i biancocelesti saranno infatti una formazione molto unita, che non verranno spesso trascinati da un singolo. Una vera e propria coesione dove titolare o subentrante sapeva perfettamente cosa svolgere in campo. Lo dimostra soprattutto la cifra dei gol segnati dal principale attaccante, Marcelo Salas, che siglerà 12 gol in Serie A e sarà anche l’unico della rosa a superare la doppia cifra.

In porta, Luca Marchegiani era il titolare. La difesa veniva composta da una linea a 4 con Giuseppe Pancaro e Paolo Negro, sulla corsia sinistra e di destra, a completare il reparto difensivo composto dai due centrali Nesta e Mihajlovic, difensori forti nel contrasto ma dalla tecnica raffinata, soprattutto per il serbo, data anche la grande quantità di punizioni segnate in carriera. Abili dunque a far ripartire l’azione, i centrali venivano spesso schermati ed aiutati nella fase difensiva da un mediano: Sensini in primis e Almeyda poi erano designati perfettamente in questo ruolo. L’ex Parma e Udinese riusciva a ricoprire anche più ruoli come il terzino o il difensore centrale per via delle sue grandi doti difensive, ma dal piede abile per l’impostazione.

Il centrocampo era poi formato da altri due argentini ad accompagnare l’azione: Juan Sebastian Veron e Diego Simeone appunto, autore del gol che riaprirà la corsa scudetto contro la Juventus. Per l’ex Parma sarà a livello realizzativo la miglior stagione dal punto di vista realizzativo, con doppia cifra raggiunta fra Serie A e Champions. Per il Cholo invece, dotato di grande corsa e anche senso dell’inserimento per colpire di testa, veniva affidato un ruolo per aiutare il regista. Sugli esterni, ecco che si trovavano i due equilibratori della squadra, abili nell’aiutare la squadra anche in fase difensiva ma soprattutto a cambiarne il volto in attacco. Nedved a sinistra e Conceicao sulla destra erano in grado mettere in difficoltà l’uomo, il primo con la palla al piede e dagli strappi micidiali, il portoghese invece con la sua intelligenza tattica per gli inserimenti.

In attacco, troviamo due attaccanti principali: Marcelo Salas, che come detto in precedenza è risultato il miglior marcatore della squadra, e Simone Inzaghi. I due attaccanti non risultavano quasi mai in campo contemporaneamente, con il cileno preferito da Eriksson per la sua abilità nel giocare sul corto per via della tecnica eccelsa, mentre Inzaghi preferito per il lancio lungo alla ricerca della profondità. In rosa erano poi presenti altri elementi dove spiccano soprattutto i nomi di Dejan Stankovic, ancora acerbo per guadagnare un ruolo fondamentale con questi giocatori in campi, e l’ex Juventus Boksic che insieme a Mancini hanno svolto per lo più il ruolo di seconde punte. Per via dei tanti problemi fisici i due non hanno saputo dare il contributo decisivo alla squadra.

L’AVVENTURA IN CHAMPIONS LEAGUE

La Lazio nel 1999/2000 disputa la sua prima Champions League della storia. Qualificata come seconda nel campionato precedente e dalla forza della squadra, giunge come formazione più forte del suo girone. Sorteggiata nel gruppo A, finisce insieme all Dinamo Kiev, Bayer Leverkusen e Maribor. Rispettando le aspettative, la Lazio conclude alla grande la prima fase a gironi vincendo 4 partite e pareggiando le restanti. Nelle seconda fase le cosi si fanno più complicate visto anche il livello degli avversari: nel gruppo con il Chelsea di Zola, il Feyenoord e Marsiglia i biancocelesti perdono la loro prima partita con gli olandesi. Ma il pareggio all’Olimpico e la decisiva gara giocata a Stamford Bridge vinta contro i Blues per 2-1 grazie alla rete da vero numero 9 di Inzaghi ed alla straordinaria punizione di Mihajlovic. Con i francesi invece arrivano due vittorie.

La corsa verso il sogno più importante si interrompe però ai quarti di finale, quando la Lazio pesca il Valencia, futura finalista di quella competizione. Prima al Mestalla gli spagnoli si impongono con un grande 5-2, quasi impossibile da rimontare. Infatti, il gol di Veron risulterà inutile nella gara di ritorno, finita 1-0 per i padroni di casa.

I TRAGUARDI RAGGIUNTI

Nonostante l’amarezza dell’eliminazione in Coppa, a livello europeo la Lazio può vantarsi di un prestigioso trofeo internazionale vinto a inizio stagione: la Supercoppa Europea. Contro il Manchester United di Sir Alex Ferguson campione d’Europa in carica, con un gol di Salas la squadra di Eriksson si impone per 1-0. Dopo un match di campionato contro il Sunderland, tanti anni dopo lo scozzese rilasciò questa intervista riguardo ai ricordi più amari dopo 25 di fila sulla panchina dei Red Devils. Uno di questi fu proprio legato alla Supercoppa del 1999:

“Nel 1999 abbiamo perso la Supercoppa Europea contro la Lazio che in quel momento era la migliore squadra al mondo ed è forse questo il ricordo più amaro”.

Oltra alla Serie A conquistata all’ultima giornata, anche la Coppa Italia, terza nella storia della Lazio, viene vinta dai biancocelesti, assoluti dominatori in Italia in quella stagione. Nella doppia finale contro l’Inter è decisiva la gara di andata vinta per 2-1, mentre al ritorno ci sarà solo uno 0-0.

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Tre italiane in finale nelle coppe europee: fortuna o rinascita del nostro calcio?

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Inter, Lautaro viene insidiato da Barella nel ruolo di nuovo capitano interista

È indiscutibilmente l’anno dell’Italia, almeno per quanto riguarda il mondo del calcio. Tre italiane in finale nelle tre coppe europee era qualcosa di difficilmente pronosticabile a inizio anno. E non solo: quello che stupisce ancora di più è il numero delle squadre che sono riuscite a farsi strada durante il loro cammino nelle competizioni continentali. Abbiamo portato ben tre team ai quarti di finale di Champions League, due in semifinale di Europa League (in cui abbiamo sfiorato una finale tutta italiana) e, per la seconda volta consecutiva, una in finale di Conference League.

Non si può non elogiare il percorso e la crescita di quasi tutte le compagini della nostra nazione e in molti si sono chiesti se questo non possa essere il punto di partenza per un nuovo dominio italiano in Europa, come fu a cavallo fra gli anni ’90 e i primi del 2000. La domanda ha ovviamente senso, non solo considerati i risultati di questa stagione ma anche per il fatto che la nostra Nazionale (pur non riuscendo tristemente a qualificarsi per il Mondiale) è la detentrice del titolo europeo, conquistato appena due anni fa.

Altri, un po’ più pessimisti, hanno tirato in mezzo anche la fortuna di aver avuto dei sorteggi favorevoli. E quindi a cosa credere? Abbiamo realmente avuto solo fortuna o c’è qualcosa in più? Affrontiamo la questione con una semplice analisi dei fatti per scoprire a che punto è il nostro calcio e se potremmo rivedere questo exploit delle nostre squadre nel prossimo futuro.

LE DIFFERENZE FRA CHAMPIONS, EUROPA E CONFERENCE LEAGUE

Sarebbe fuorviante affrontare la questione in maniera unica per tutte le squadre italiane e anche farlo non considerando le differenze fra le tre coppe europee. Champions, Europa e Conference League sono, infatti, tre competizioni studiate per fini diversi e per compagini diverse. Prendiamo in considerazione l’Europa League e la Conference League. Come sappiamo queste coppe sono un’opportunità per le squadre di medio/alto livello del panorama calcistico continentale. Non indicano la squadra più forte d’Europa ma ci aiutano a valutare un parametro importantissimo: il livello dei vari campionati europei.

La salute della classe media è in molti casi un sintomo della salute di una società e, nel mondo del calcio, queste due competizioni sono quelle che più di tutte ci indicano lo stato di salute di un movimento. Nel caso dei club italiani, possiamo tranquillamente dire che, visti i risultati in queste competizioni in questi ultimi anni, il nostro calcio sta molto più che bene.

In EL abbiamo avuto quattro squadre arrivate almeno in semifinale nelle ultime quattro edizioni e in ECL per la seconda volta di fila una nostra squadra può giocarsi la coppa. Questo ci porta a ragionare sul fatto che il livello medio della Serie A è molto alto anche rispetto agli altri campionati europei di punta. Se ci riflettete, questo è anche il motivo per il quale la lotta Champions in queste ultime stagioni del campionato italiano si è fatta sempre più avvincente.

Un livello tale che ha fatto sì che venissero create delle rose altamente competitive per queste due competizioni e l’auspicio per il futuro è che le italiane possano ambire di anno in anno alla vittoria di queste due coppe europee. Purtroppo, va fatto un discorso diverso per la terza coppa, la più importante, la Champions League.

IL CAMMINO DELLE ITALIANE IN CHAMPIONS LEAGUE

La coppa “dalle grandi orecchie” è quella che racchiude l’élite del calcio europeo. Non solo, è anche innegabile come siano sempre i soliti top club del continente ad accedere alle fasi più avanzate del torneo. Squadre come Manchester City, Real Madrid, Bayern Monaco, tutti squadroni pensati per vincere il trofeo ogni anno. In questa stagione abbiamo però assistito a un vero e proprio dominio del nostro calcio anche nella manifestazione più importante.

Tolta la Juventus, l’unico club che rispetto ai precedenti anni ha avuto una flessione, Inter, Milan e Napoli hanno dimostrato, aiutate anche da un campionato maggiormente competitivo e, dunque, più “allenante”, di avere delle rose molto ben attrezzate anche per poter dire la loro. E, soprattutto, di poter giocare un calcio al livello di quello dei top club europei.

L’Inter, per arrivare fino in fondo, ha dovuto superare un girone di ferro con Bayern Monaco e Barcellona. Il Napoli ha affondato il Liverpool, finalista della precedente edizione, e ha, per lunghi tratti, giocato un calcio tra i migliori d’Europa. Il Milan è rinato grazie allo strepitoso lavoro di Pioli e Maldini. Tutte realtà in crescita, come lo sono anche Roma, Lazio e Fiorentina. Ma, dunque, possiamo ripetere l’exploit di quest’anno anche nelle prossime Champions League?

QUANTO HA INFLUITO LA FORTUNA?

Purtroppo dobbiamo anche affrontare il fatto che, probabilmente, abbiamo anche avuto un po’ di fortuna. Come ci ha insegnato Niccolò Machiavelli non dobbiamo sottovalutare l’operato di questa forza che l’uomo può a volte controllare, ma che spesso va al di là delle nostro operato.

È innegabile, quindi, che il sorteggio dei quarti di finale, che ha posto ben tre italiane in un lato del tabellone, è stata una contingenza che ha influito molto sul prosieguo della competizione. Una situazione che difficilmente potremo rivedere nei prossimi anni, salvo eventuali ulteriori aiuti della Dea bendata. Quindi? Dovremmo prendere questa strepitosa stagione delle italiane nelle coppe europee come unica e irripetibile e frutto solo della fortuna?

RIPARTIRE DA QUI

Come abbiamo detto, è innegabile il miglioramento di quasi tutte le nostre squadre da un punto di vista tecnico, tattico e gestionale. È vero, la fortuna ha in parte influito, ma non si possono nascondere le virtù delle nostre società. Ecco, proprio questa parola sarà il cardine dei prossimi anni del calcio italiano. Non a caso un concetto nuovamente machiavellico: la virtù, ovvero la forza che l’uomo contrappone alla fortuna, quando questa decide di voltarci le spalle.

Se per Europa League e Conference League la forza delle nostre squadre ci permetterà di lottare sempre per la vittoria, per la Champions League ci troveremo, già dall’anno prossimo, a fare i conti con delle realtà superiori a noi. Ma non possiamo lasciarci sfuggire l’opportunità che questa stagione calcistica ci ha offerto, ovvero quella di dimostrare che anche noi possiamo tornare ad ambire a grandi traguardi.

Il nostro movimento può e deve ripartire da questa stagione per poter progredire ulteriormente e le nostre società muoversi per far sì che questo non sia un anno unico e irripetibile, ma che, col tempo, diventi la norma. Far sì che, con le proprie forze, i club italiani riusciranno a raggiungere posizioni di vertice nelle coppe europee (anche in Champions League) a prescindere dall’aiuto che la fortuna sceglie di offrirci.

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Henrikh Mkhitaryan: l’equilibratore dell’Inter

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Mkhitaryan

L’acquisto di Henrikh Mkhitaryan nella scorsa finestra estiva di mercato da parte dell’Inter è stato uno di quei colpi che non hanno di certo esaltato i tifosi. Non che sia stato un acquisto criticato, ovviamente, ma neanche uno di quei colpi col botto. Un centrocampista, arrivato a parametro zero, in grado di aggiungere qualità alla manovra ma, in fin dei conti, solamente un buon rimpiazzo per Calhanoglu o Barella. Nulla di più di un completamento del roster nerazzurro.

In pochissimi di noi si sarebbero però aspettati una sua centralità nello scacchiere tattico di Simone Inzaghi oggi, alla vigilia di una storica semifinale di ritorno di Champions League. In una stagione in cui Mkhitaryan è sì partito inizialmente dietro nelle gerarchie dell’Inter, ma è risultato, alla lunga, decisivo per lo strepitoso percorso dei nerazzurri in tutte le competizioni.

DUTTILITÀ

L’intelligenza, qualora volessimo prendere dei parametri per giudicarla, si nota anche dalla flessibilità e dalla duttilità di una persona. Al sapersi ambientare al contesto anche a prescindere dalle difficotà. Ebbene, questo concetto calza perfettamente alla personalità di Mkhitaryan. Una persona, prima ancora che un calciatore, che ha saputo adattarsi e trarre il meglio da ogni esperienza. Parla sette lingue: armeno, russo, inglese, portoghese, francese, tedesco e, ovviamente, l’italiano. Con un laurea conseguita all’Istituto di Cultura Fisica in Armenia.

Nel frattempo ha insegnato calcio in Germania, al Borussia Dortmund di Jurgen Klopp, poi in Inghilterra all’Arsenal e al Manchester United. Ed è proprio qui che la sua intelligenza calcistica prende forma. Mkhitaryan è un tuttofare, un centrocampista in grado di ricoprire ogni zona del campo, dal trequartista all’esterno, con una tecnica unica ma, soprattutto con uno spirito di sacrificio unico.

Infine, l’arrivo in Italia. Alla Roma parte da trequartista, giocando in maniera superlativa, salvo poi arretrare il suo raggio d’azione come mediano insieme a Cristante. Ruolo in cui il suo apporto passa molto più in sordina ma grazie al quale diventa essenziale per Mourinho, sia in Campionato che in Conference League. Da questa stagione all’Inter, per Mkhitaryan si prospettava un progressivo declino, soppiantato dai vari Brozovic, Barella e Calhanoglu, titolari inamovibili per Inzaghi. Ma ecco che il suo apporto è tornato a essere determinante anche a Milano in un nuovo ruolo, quello di mezzala, grazie al quale l’armeno è diventato fondamentale per i nerazzurri.

LA SUA IMPORTANZA PER L’INTER

La sua intelligenza rara lo ha portato a rendersi indispensabile per le logiche tattiche di Inzaghi. Certo, nel suo passaggio a un ruolo da titolare ha inciso molto l’infortunio di Brozovic, ma la sostituzione del croato con Calhanoglu come vertice basso di centrocampo è stata anche permessa proprio dall’armeno.

Come dicevamo, il sapersi adattare è una delle caratteristiche delle persone illuminate, e Mkhitaryan ha un’abilità speciale nel sapersi muovere in sintonia con i suoi compagni di reparto. La sua accuratezza nei movimenti senza palla gli permette di smarcarsi per offrire una linea di passaggio. La tecnica gli permette di gestire il possesso, sia facendo fluire il pallone con velocità, sia portando egli stesso la sfera in conduzione. La sua tenacia e il suo spirito di sacrificio (pur essendo un 34enne) lo portano, inoltre, a unire alle sue doti qualitative quelle quantitative che per caratteristiche non dovrebbero competergli.

È così che lo si trova spesso a intercettare le linee di passaggio avversarie o andare a contrasto. O anche a sopperire alle avanzate offensive di Calhanoglu, retrocedendo ulteriormente la sua posizione. O, al contrario, sfruttare le sue doti nell’inserimento per spingersi in area quando Barella è impossibilitato a farlo. Sono tutte doti che il numero 22 mette di partita in partita a disposizione dei nerazzurri. Mkhiratyan è il tuttocampista perfetto per l’Inter, l’ago della bilancia essenziale sia in fase offensiva che difensiva.

Non a caso, anche la sua collocazione tattica la dice lunga. Il ruolo di mezzala sinistra, che possiamo definire a tutti gli effetti come il secondo regista della squadra, che, prima di lui e Calhanoglu, fu di un altro illuminato del gioco come Christian Eriksen. E in cui lo stesso Inzaghi adattò, nei suoi anni alla Lazio, Luis Alberto, la fonte creativa di maggior spicco dei biancocelesti in quegli anni. Un ruolo che, dunque, richiede doti uniche per un giocatore, soprattutto per quanto riguarda l’intelligenza tattica. E chi se non Henrikh Mkhitaryan poteva essere l’uomo giusto per ricoprirlo?

 

 

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L’eterno Modric contro lo scorrere del tempo

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modric arabia saudita

È ormai quasi certo il rinnovo di Luka Modric con il Real Madrid. Il centrocampista croato prolungherà ulteriormente la sua già strepitosa carriera, regalandoci il lusso di vederlo giocare anche nella prossima stagione con la camiseta blanca, quando compirà 38 anni. Quasi a non volerci concedere i commenti lusinghieri con il quale vorremmo elogiarlo al termine della sua carriera. No, lui è e continuerà ad essere il faro che illumina le notti del Santiago Bernabeu, beffandosi persino del Padre Tempo.

Certo, ormai siamo sempre più abituati a vedere le carriere dei giocatori prolungarsi fino a tarda età. Visto che siamo in un’epoca di veri e propri super atleti che, in alcuni casi, riescono a fronteggiare anche l’inesorabile scorrere del tempo. Ma per Modric bisognerebbe fare un discorso a parte, visto il ruolo peculiare che riveste, quello del centrocampista. Un giocatore che dovrebbe teoricamente essere il “motore” della squadra, sia dal punto di vista mentale che fisico. Ebbene, il diez croato ha sicuramente dovuto sviluppare un’intelligenza fuori dal comune (e non solo calcistica) per saper essere ancora così decisivo in uno dei club più prestigiosi al mondo e nelle competizioni più importanti. E soprattutto, a saper andare oltre i limiti impostigli dall’età.

UN DOMINIO CHE DURA DA UN DECENNIO

Grazie al suo imminente rinnovo con il Real Madrid, Modric si appresterà a vivere la sua undicesima stagione con le Merengues. Un traguardo assurdo se consideriamo che la carriera del Folletto di Zara in Spagna non era iniziata nel migliore dei modi. Dopo la prima stagione, molti sostenitori madridisti lo additavano addirittura come il peggior acquisto della storia dei Galacticos.

Serve l’arrivo di Carlo Ancelotti l’anno successivo per porlo definitivamente al centro del Real Madrid e a portarlo nell’Olimpo del calcio. Già dalla vittoria della Décima, propiziata proprio da un suo assist per il gol di Sergio Ramos allo scadere della finale contro l’Atletico Madrid.

Da lì inizia la mistica del Real di questo decennio, capace di dominare il calcio continentale come nessuno mai nella storia. Dopo la Décima, arriva il trittico di trionfi dal 2016 al 2018. Un three-peat che non era mai successo in epoca moderna. Modric è al centro del gioco. La stella è ovviamente Cristiano Ronaldo, ma il tempo saprà anche effettivamente svelare che, dietro al magistrale lavoro di CR7 sotto porta, si celava anche il genio tattico e tecnico del trequartista croato. Che, infatti, sopravanza il portoghese proprio nel 2018. Al Mondiale in Russia, Modric trascina la Croazia a una storica finale, che gli vale anche il Pallone d’Oro della stagione, scavalcando proprio il nativo di Madeira.

Ecco, sembrava proprio quello il canto del cigno. Dopo quell’incredibile anno, sia il talento di Modric che l’efficienza di quel Real Madrid parevano affievolirsi fino a sembrare anche anacronistici per il calcio ultra fisico di questi ultimi anni. O forse era solo una pausa scenica, prima del ritorno della scorsa stagione. In cui la Casa Blanca torna a dettare legge in campo europeo, ammantata da un alone di invincibilità che ha più a che fare con il misticismo che con le logiche sportive. Il trionfo in Champions e in Liga della stagione 2021/22, il ritorno della Croazia sul podio mondiale, tutte gesta in cui Modric è uno degli artefici massimi. Decisivo come non mai nonostante il sacrificio dal punto di vista fisico che il tirannico Padre Tempo gli chiede di volta in volta.

Eppure Modric è sempre lì, all’apice, quasi come se anche il tempo, oltre che lo spazio sul terreno di gioco, si pieghino al suo volere. A un passo dall’ennesima semifinale in Champions League con il suo Real Madrid, che prima di accantonarlo deve prima scontrarsi sempre con il fatto che il croato è sempre e comunque fondamentale.

COME FA A SFIDARE IL TEMPO?

Purtroppo c’è da dire una cosa importante. Non sarà il nativo di Obrovac a sconfiggere il Padre Tempo e continuare a giocare all’infinito. Per il semplice fatto che questo è un avversario al quale, prima o poi, ogni mortale è costretto a piegarsi. E, infatti, anche a veder giocare Modric adesso, nel Real Madrid o nella Croazia, si può notare come il suo dominio tecnico e fisico nelle partite va via via affievolendosi.

Si deve purtroppo constatare come Modric non ha più la corsa, la resistenza, il fisico per poter illuminare ogni singolo momento della stagione. Il Padre Tempo, che gli ha dato la gloria, sta pian piano chiedendogli il conto, togliendogli la dinamicità dei giorni migliori. Ma è proprio qui che risiede l’immensa intelligenza di Modric. Anche lui ha capito che non può sconfiggere l’avanzare inesorabile dell’età. Ma grazie alle sue doti intellettive fuori dal comune ha anche capito come dilatare il più a lungo possibile i suoi giorni di maestosità.

Non riuscendo più a rendere al 100% sul lungo periodo, non gli resta che rimanere quasi dormiente, anche per lunghi tratti della partita e della stagione. Ma scegliendo accuratamente i momenti clou, in cui riversare, anche se per un periodo limitatissimo di tempo, tutta la sua classe. È così che nei big match della scorsa fase finale della Champions League o al Mondiale in Qatar, è risultato ancora una volta determinante. Mutuando un’espressione del basket NBA, Modric è diventato il giocatore clutch per eccellenza. Magari non sempre ai suoi massimi livelli in stagione, ma ingigantendo il peso specifico delle sue giocate in proporzione alla crucialità del momento.

È IL MIGLIOR CENTROCAMPISTA DI SEMPRE?

Che Modric sia già nel Pantheon dei grandi del calcio è un fatto assodato da tempo. Ciò che rimane da chiedersi è se non sia addirittura il migliore del suo ruolo in ogni epoca. Può sembrare un’affermazione forte, divisiva, ma probabilmente non lontanissima dalla verità.

Ovviamente, lungi da noi sbilanciarci in questo modo in suo favore, visto che, nella quasi totalità dei casi, è impossibile rispondere a certe domande. L’unico dato che possiamo analizzare è però questa sua abilità nel poter dilatare il tempo, che in pochissimi hanno avuto in passato. Parliamo di una ristrettissima élite di centrocampisti, come Iniesta, Pirlo, Xavi e Zidane. Probabilmente gli unici che hanno vinto quanto Modric in carriera e che hanno spinto il loro fisico nell’impresa di duellare con i limiti imposti dall’età.

Pirlo e Xavi, per esempio, hanno smesso di giocare ad altissimi livelli lo stesso giorno, dopo la finale di Champions League fra Barcellona e Juventus del 2015, rispettivamente a 36 e 35 anni. L’ultimo atto della carriera di Zizou è stata l’indimenticabile finale del Mondiale 2006 contro l’Italia, lasciando il calcio da trascinatore della sua nazionale a 36 anni. Iniesta (che comunque è ancora un giocatore del Vissel Kobe, in Giappone) lascia il Barça a 34 anni da Campione di Spagna. E poi c’è Luka Modric che, in realtà, sulla carta, ha solo un anno meno di Don Andres, ma che sa ancora regalare emozioni ai più alti livelli di questo sport. E lo farà anche l’anno prossimo, quando compirà 38 primavere. Almeno questo possiamo tranquillamente affermarlo: nessuno ha saputo duellare con il Padre Tempo più a lungo di lui.

 

 

 

 

 

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