Leggendo lo score finale della semifinale di ritorno tra Roma e Liverpool emergono parecchie constatazioni su quello che sarebbe potuto essere ma non è stato. Una Roma gagliarda, aggressiva e audace non ha giocato la partita perfetta ma ci è andata vicino, contro un avversario dimostratosi migliore e che, probabilmente, al netto di rosa e prestazioni, ha meritato la finale di Champions League con il Real Madrid. Le due formazioni erano in parte l’una speculare all’altra, due 4-3-3 terze in campionato e con allenatori differenti ma che condividono due importanti concetti: determinazione e convinzione. Se il Liverpool è passato contro la Roma è perchè Klopp ha deciso di affidare il passaggio del turno alla sua filosofia di energia e tuttocampismo, mentre Di Francesco, almeno nella gara di ritorno, ha provato ad applicare i suoi concetti di gestione verticale ma ordinata della palla e comprensione pressochè totale della squadra nella manovra. Seppur i rimpianti siano tanti le per la squadra capitolina, la Roma esce dalle semifinali con la consapevolezza che, quest’anno, è riuscita a rappresentare al meglio il calcio italiano.
SINGOLI
La Roma, ieri sera, ha sfornato una prestazione superiore a quella del Liverpool, e con parole diverse, ha scritto tuttavia lo stesso copione della prima mezzora di Anfield Road, con attacco, pressione ma errori banali nella retroguardia. Ma come era accaduto in Inghilterra, il Liverpool ha segnato per primo, e già alla prima rete del senegalese Manè si era intuito che la fantasticata rimonta sarebbe stata più una speranza da narrare che un vero e proprio concetto realizzabile. Se contro il Barcellona il gol era arrivato subito e aveva fatto capire l’indirizzo della partita, contro i Reds il problema dei giallorossi è stato dover fronteggiare subito un handicap nell’handicap, ovvero recuperare non più tre gol ma quattro. E anche la seconda rete di Wijnaldum ha avuto lo stesso effetto. Il problema (in termini strettamente tecnici) non è stata la tanto diseredata scelta tattica quanto i meri errori dei singoli. Certamente la squadra ha avuto fortuna nell’autogol di Milner, una sorta di manna dal cielo per far sì che tutto tornasse come prima e che nessuno avesse fatto caso al gol di Manè. Poi, però, sono arrivate le disattenzioni sul corner e la conseguente marcatura di Wijanldum, forse il vero macigno che ha condannato i giallorossi, usciti dall’Olimpico con un solo gol di distanza dai supplementari. Ed è pensando proprio a quel gol o a ai tanti errori più che evitabili ad Anfield – ognuno ha il suo preferito, o meglio, il suo maledetto – che la doppia sfida con i Reds rimane un pugno sullo stomaco bello forte. Una tristezza autolesionistica in un certo senso.

Hanno sbagliato molto sia Fazio che Manolas, e pure Florenzi, decisamente troppo tenero nelle chiusure; la linea a quattro della Roma ha sbandato in quelle fasi che un allenatore da per scontato quando si deve vincere una partita del genere: le ovvietà. L’erroraccio di Nainggolan è di quelli beceri, il colpo di testa sbilenco di Dzeko sul gol di Wijnaldum è da urlo di Munch. Il collettivo DiFranceschiano ha avuto la meglio nello scavalcare le linee del Liverpool ed arrivare alla conclusione anche grazie a una catena di destra avversaria quasi dilettantistica: il problema, come all’andata, è stata la difesa.

Profonda amarezza
Eppure questo è il calcio, e la Roma ci ha dovuto fare i conti spesso anche in campionato.
PROMOSSI
Al netto degli errori della squadra capitolina, vanno fatti comunque dei gran plausi alla gestione tecnica di Di Francesco durante tutto il torneo, considerando, soprattutto, la sua capacità di far crescere i giocatori. Un allenatore orgoglioso ma convinto, che come altri, seppur con difficoltà, ha trovato in itinere un modulo ed un coro giusto per gli interpreti che aveva a disposizione.

Ieri sera la Roma ha avuto un maggior possesso palla (59,9%) e visti i meccanismi del caso era anche prevedibile. Quello che stupisce e che al contempo fa mangiare le mani al popolo giallorosso sono le tante occasioni create dalla Roma: due fucilate di Dzeko in curva che potevano essere buoni appoggi con un po’ più di lucidità, una punizione di Pellegrini finita non si sa dove, il quasi-tiro-aggancio di Under, il mani di Alexander-Arnold su El Shaarawy. Insomma, tanti frangenti in cui spiccano indubbiamente pure gli errori arbitrali che, al tempo della VAR, in certi paesi non sono più disposti ad accettare: le parole in coro di Monchi e Pallotta, unite a quelle di mezza Germania martedì sera, sono un invito abbastanza coerente e giustificato.

Il gol di Dzeko è il quinto gol consecutivo del bosniaco in Champions League.
La Roma ha tirato ben 24 volte ma Karius, a parte un insidioso tiro di El Shaarawy, ha vissuto principalmente di uscite e respinte; il reparto offensivo giallorosso, orfano proprio di quel Salah ieri avversario, è in ogni caso promosso: in primis Dzeko, maturato definitivamente come leader in una squadra in cui, da agosto a oggi, il livello della rosa è aumentato. Sta completando (lentamente) il download Patrick Schick, Lorenzo Pellegrini si è inserito con giustezza nel mondo “dei grandi”, Fazio ed El Shaarawy sono finalmente due giocatori rinati e adatti ai contesti di ieri sera.

Tutto il mondo Roma, si può dire, ha giovato in parte dalla partita di ieri sera, e più in generale dal cammino europeo. Perchè tra i rimorsi per una gara d’andata sballata e qualche errore qua e là all’Olimpico, la Roma ha migliorato se stessa ed il proprio ambiente, con giocatori rigenerati e un allenatore convinto. Le semifinali col Liverpool sono arrivate dopo aver escluso l’Atletico Madrid dai gironi, lo Shakhtar agli ottavi, il Barcellona ai quarti.
L’eliminazione è frutto della superiorità dell’avversario – sul piano tecnico e della sorte – in una base di scontro praticamente simile e degli atti autolesionistici nel match d’andata. La finale era possibile certamente sino a due settimane fa, eppure il doppio scontro ha messo il veto su Kiev nonostante i giallorossi avessero dimostrato al mondo di avere i mezzi per poterci arrivare. Ma la Roma non si ferma, perchè ha capito che il progresso, almeno quello, è stato raggiunto.