“Il mondiale più bello di sempre”. Commento, soggettivo o logicamente di parte, di Gianni Infantino al primo mondiale da presidente FIFA. Un capitolo andrebbe aperto sulla locuzione “più bello”. Perché sì spettacolare, il mondiale di Russia, lo è effettivamente stato. Dentro e fuori dal campo grazie anche all’organizzazione perfetta. Una macchina precisa alla ricercata perfezione in ogni sfumatura. Perfezione rincorsa e catalizzata nei regolari dettagli del countdown prima di ogni calcio d’inizio, per far coincidere il là delle avversità con lo scocco dell’ora precisa su ogni orologio. La cura del particolare. Ci fossero stati dubbi…
Spettacolare, dunque, si. Qualitativamente di alto livello – dentro il campo – forse no. Probabilmente uno dei mondiali di qualità più bassa della storia. Catalizzatrici – su tutte – di questa opinione, le papere dei portieri che hanno preso per mano questo Mondiale accompagnandolo dalla prima all’ultima giornata.
Sono caduti i due grandissimi. Sono cadute miseramente le grandi. Hanno stupito le piccole (grazie anche agli strascichi tecnico-tattici che il VAR ha portato con sè). Ha vinto la migliore – sempre popolare difficile ammissione italiana.
Hanno stupito i “piccoli” protagonisti spodestando palloni d’oro e “personaggi” mediatici.
Ne abbiamo individuati 3. Tre protagonisti partiti con grandi ambizioni, sogni più che altro, ma senza riflettori puntati su di sè. Tre calciatori che li hanno poi saputi far convergere sulla propria figura con un campionato del mondo sopra ogni aspettativa.
ANTE REBIC

Non di certo l’attaccante su cui le telecamere pensavano e avevano in programma di zoommare. Nel quadrato offensivo croato era il meno atteso. Modric, Perisic e Mandzukic per nomea e vicinanza italiana certamente il trittico da tenere d’occhio. Ante Rebic meno aspettato. Forse anche per i feedback italiani che si portava dietro dalla biennale esperienza viola del 2013-14 e 2015-16. 8 presenze e due gol totali. Di certo non aveva fatto sgranare gli occhi a nessuno. O quantomeno lo aveva fatto fare a pochissimi.
Le ultime due stagioni passate in Germania all’Eintracht Francoforte, alla corte di Kovac, croato. L’ultima, quella di lancio, fatta di 25 presenze, 6 gol e 3 assist culminata con la vittoria della Coppa di Germania l’ha fatto arrivare nell’11 titolare. Ma la risonanza mediatica della sua stagione non è stata certamente paragonabile a quello che il Mondiale sarebbe potuto essere ed è stato.
Ante Rebic ha sorpreso tutti. Da immaturo e sciocco ragazzo tutto estro, discontinuità e inesperienza mentale per certi palcoscenici si è messo in mostra per tenacia, classe, crescita tattica e mentale. Sempre accompagnato da un carattere forte (8 gialli nella stagione a Francoforte) ma tutto sommato apprezzabile da chi lo mette in campo se poi i risultati sono quelli visti.
Esterno d’attacco, ma a tutta fascia, Rebic ha messo in mostra pericolosità offensiva, ottima tecnica – ma in fondo dubbi non c’erano – e una grande propensione al sacrificio per il bene della squadra. Non poche infatti le occasioni di recuperi palla a centrocampo, e più indietro, fondamentali per la serenità difensiva croata e ripartenze. Azioni difensive che hanno riacceso bianconere immagini di Mandzukic.
Rebic di certo il giocatore in più che la Croazia ha avuto, fondamentale, che ha risolto la pratica biceleste creando e sfruttando l’obrobrio di Caballero con una conclusione non certo facile per coordinazione e riuscita. Un giocatore che noi al di qua dello schermo e del campo non ci aspettavamo ma che Dalic sapeva benissimo di avere in rosa.
E per quanto abbia fatto vedere di sè, non sarebbe immeritato e impossibile vederlo in una big l’anno prossimo.
GULLERMO OCHOA

Opposto esempio di quei giocatori, fenomeni o cannonieri con il proprio club e anonime comparse – al meglio – in nazionale. Non sempre perfetto nei club, mai in squadre al top che, rimanendo fedeli alle sole partecipazioni ai mondiali, meriterebbe. CF America, Ajaccio, Granada, Malaga e Standard Liegi. Medio-bassi profili. Nell’ultima stagione belga 48 gol subiti in 38 partite. Tecnicamente non impeccabile, per qualche verso stilisticamente rivedibile alle volte e migliorabile nell’approccio alla parata sicura, alla palla bloccata. Fenomenale nella respinta. Tecnica di base anche lacunosa colmata da felini riflessi. Impressionante la velocità di reazione. Quasi soprannaturale da renderlo veramente insuperabile. Soprattutto con la maglia del Messico.
Non il primo numero 1 su cui le telecamere mondiali erano preparate a muoversi e su cui i discorsi post partita si sarebbero concentrati. Ma anche Ochoa si è preso la sua scena. Oltre al connazionale Lozano – anche lui sorpresa sudamenricana – si è riconfermato fenomeno ai mondiali. L’ultima tradizione tutto sommato positiva del Messico al mondiale ha trovato conferma ancora una volta. Ancora una volta grazie ad Ochoa che quando sente odore di mondiale si trasforma in autentico fenomeno.
Quest’anno come nel 2014. In Brasile, l’Olanda ma soprattutto i padroni di casa dovettero fare i conti con il muro creato da Ochoa davanti alla linea di porta. Contro Neymar e soci la sua partita migliore di quel Mondiale per netto distacco.

Quest’anno Ochoa si è ripetuto. Contro Germania e Brasile – ancora una volta – su Coutinho soprattutto. Il mondiale che esalta Ochoa. Non il nuovo fenomeno tra i pali ma certi un numero 1 che per quanto visto meriterebbe di certo un palcoscenico all’altezza per confermarsi il fenomeno da Mondiale. 2014 e 2018, Ochoa fenomeno com 4 anni fa.
ANDREAS GRANQVIST

Un dolore immenso per sentimento patriottico trovarci ad esaltare il centrale svedese. Ma dovuto e giusto reso onore a un’altra “scoperta” mondiale.
Una campagna perfetta cominciata già nella fase di qualificazione. Un girone davvero ben fatto. Tre gol contro Bielorussia e Lussemburgo. Poi il playoff con l’Italia dove la macchina difensiva svedese in collaborazione con l’innocuo e sterile attacco italiano si è esaltata rasentando la perfezione.
“Avrà vita breve” si diceva della Svezia prima dell’inizio del campionato mondiale. “Non andranno lontano. In più senza Ibra…”. Le voci popolari raccontavano estrema sfiducia, forse anche legittima gufata, per la spedizione vichinga.
Che però è risultata tutt’altro che fallimentare, arresasi solo ai quarti contro l’Inghilterra dopo aver contribuito all’eliminazione della Germania ai gironi.
Tutto sostenuto dal capitano, perno e baluardo della difesa quasi insuperabile con soli 3 gol subiti. E anche rigorista. 2 su 2 con Corea e Messico. Guidato da un sentimento patriottico per cui la nascita del figlio imminente è stata messa al secondo posto, in ordine di importanza, dietro il quarto di finale contro l’Inghilterra. Palle alte con un solo padrone. Struttura fisica senza eguali nel contrasto. Solidità di reparto in perfetta armonia con la solida figura di Andrea Granqvist.
Un mondiale da capitano, protagonista e uomo fondamentale come mai nella carriera ha messo in mostra, sempre in riquadri di periferia. Di seconda importanza. Sull’onda di una Svezia sorprendente e inaspettata. Senza Ibra ma con un Granqvist in più.