Fonte: Avvenire.it
VINCERE
“Meglio il pianto di una sconfitta che la vergogna di non aver lottato.”
Esordiva così Benito Amilcare Andrea Mussolini, noto all’Europa intera come Il Duce. Colui che fece cadere l’Italia nella vergogna, appoggiando l’iniziativa hitleriana e diventando uno dei terribili protagonisti della tragedia dell‘Olocausto. Mussolini riuscì a far leva sulle frustrazioni dei reduci della Grande Guerra, creando un movimento politico che avrebbe trasformato l’Italia in una dittatura. Quella delle leggi razziali del 1938, quella della violenza e del controllo. Proprio quest’ultimo termine ‘controllo’, associato al concetto di ordine, spingerà il fascismo a raggiungere con uno dei suoi numerosi tentacoli neri anche una delle forme di libertà più assolute: lo sport.
Siamo ad inizio ‘900, le olimpiadi di Atene 1896 avevano iniziato ad attirare le attenzioni degli italiani, creando di conseguenza un interesse per lo sport. Le passioni degli italiani si manifestavano soprattutto nei confronti del ciclismo, il quale raggiungerà il suo apice con la storica rivalità tra Coppi e Bartali. Il calcio iniziava ad emergere, gli anni’30 vedranno protagonisti soprattutto Juventus, Bologna e la storica Ambrosiana-Inter. Già, non Internazionale, bensì Ambrosiana Inter.
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Anche nella denominazione delle squadre intervenne infatti il regime, il cui intento era innanzitutto italianizzare le società sportive, ma anche di riorganizzare le istituzioni sportive presenti affidandole a uomini vicini al partito, facilmente manipolabili. Ciò avvenne soprattutto per mezzo del Coni, dipendente al PNF e voce dell’ideologia mussoliniana di quegli anni. Nulla fu lasciato al caso. Si iniziarono a modificare società, istituzioni, federazioni, per arrivare allo scopo primario: riformare gli italiani all’insegna del mito dell’uomo nuovo, all’insegna di Benito Mussolini.
MUSSOLINI E L’UOMO NUOVO
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Il fascismo trovò dunque nello sport uno dei tanti tasselli che daranno vita alla cosiddetta “fabbrica del consenso”, veicolata attraverso una propaganda scrupolosa che fece leva sulle delusioni post Grande Guerra e sull’immagine di Benito Mussolini. Il nuovo uomo italiano era incarnato da egli stesso: rappresentava forza, virilità, azione, amore per il rischio, passione.
E il Duce amava farsi raffigurare come modello per gli italiani. Si faceva dipingere infatti come grande uomo di sport, abile motociclista e pilota d’automobili, tennista e aviatore. Affermava persino come ogni mattina, appena sveglio, fosse solito eseguire degli esercizi ginnici, per poi andare a a cavallo col sole o con la pioggia. Insomma, Mussolini voleva essere dipinto così, nonostante non sempre l’immagine coincidesse con la realtà dei fatti.
Ma l’importante era trasmettere l’idea dell’uomo che avrebbe plasmato la razza italiana, passando però attraverso le istituzioni, in primis la scuola. Il regime iniziò a donare grande importanza all’educazione fisica, fondando organizzazioni come i Balilla, tese a infondere nei giovani il sentimento della disciplina, la quale doveva essere innanzitutto manifestata con il celebre saluto rumano.
LE GIOVINETTE DI MILANO
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E le ragazze? Il regime cercò di indirizzare anch’esse, inculcando nelle giovanissime il valore delle virtù domestiche soprattutto attraverso danza, ginnastica e atletica per le più grandi. L’obiettivo non era quello di produrre campionesse, bensì formare donne graziose ma con corpi vigorosi. E per le signorine di calcio non vi era l’ombra.
Almeno così presupponevano i principi fascisti. Tuttavia alcune ragazze dell’epoca decisero comunque di sperimentare il football. Nel 1933 nacque infatti la prima squadra di calcio femminile composta dalle così ribattezzate giovinette, le quali furono protagoniste alla prima ed unica partita di calcio femminile sotto regime. Erano ragazze con la passione per il pallone, in particolare per la grande Ambrosiana-Inter di quegli anni. Ma il fascismo non tollerò l’iniziativa delle giovani milanesi e sciolse la squadra.
“Guai a scendere in campo con i pantaloncini: gonne e maniche lunghe per dare i calci al pallone. E una corsa lenta, moderata.”
Così recita l’autrice Federica Seneghini nel suo libro “Giovinette: le calciatrici che sfidarono il duce“.
Nonostante ciò, il fascismo si servì di alcune delle miglior giocatrici come Rosetta Boccalini, soprannominata “la Meazza in gonnella”, in altri sport come il basket, dove all’epoca non era previsto il contatto fisico e di conseguenza era reputato uno sport più adatto al sesso femminile. La giovane diventerà per 3 volte campionessa di basket. Forse il Duce aveva sottovalutato quel gruppo di ragazze simpatizzanti dell’Ambrosiana Inter.
’34 E ’38
Fonte: Mondiali.it
Tuttavia l’ideologia fascista non riuscì a contaminare in maniera così evidente il calcio, il quale mantenne una certa autonomia. Il modello restava quello inglese, popolo che aveva fatto nascere il football proprio tra i college più ricchi d’Inghilterra e che l’Italia stava iniziando ad apprezzare sempre di più. Un calore dovuto anche agli azzurri degli anni ’30, in grado di vincere due edizioni dei Mondiali di fila, nel ’34 e nel ’38. L’Italia guidata in panchina da Vittorio Pozzo e sul campo da uno straripante Giuseppe Meazza sconfisse la Cecoslovacchia in finale per 2-1; si ripeterà 4 anni dopo trascinata da un grande Silvio Piola nei confronti della forte Ungheria di quegli anni, battuta in finale.
Mussolini sfruttò l’occasione della Coppa del Mondo del ’34, svoltasi in Italia, per mandare un messaggio al mondo intero: ‘Siamo noi i più forti‘.
Non solo lo dimostrò attraverso l’impresa azzurra, condita da un gioco aggressivo, spesso violento. Ma lo fece innanzitutto proiettando all’estero l’immagine di un Italia vincente e moderna: l’Europa guardava estasiata la minuziosa organizzazione messa in atto dal regime, era incantata dagli stadi così nuovi e all’avanguardia
Lo stadio Littoriale di Bologna voluto da Mussolini e inaugurato nel 1927. Oggi prende il nome di Renato Dall’Ara
Solo apparenza però, perché già dal 1936 con l’invasione dell’Etiopia, in Europa iniziarono a rendersi conto di ciò che si celava dietro quell’apparente stato di benessere.
SVOLTA TOTALITARIA
Fonte: PonzaRacconta
La volontà espansionista ed imperialista fascista si manifestò chiaramente con l’invasione dell’Etiopia. Qui lo sport doveva letteralmente seguire l’ideologia fascista, tanto che si giocava esclusivamente tra bianchi o tra neri. Il motivo? Non solo un sentimento di superiorità razziale, ma anche lo scopo di non dover accidentalmente perdere contro gli etiopi e dunque mettere in dubbio l’autorità italiana. Ciò fu solo l’inizio dell’apartheid sportiva messa in atto in Etiopia, dove i calciatori di casa furono costretti a giocare scalzi per confermare l’idea di esseri indigeni propagata dal regime fascista.
La conquista etiope sarà uno dei passi cruciali che porteranno alle leggi razziali del 1938. In questo stesso anno si disputò una partita a Napoli tra Italia e Francia. Tra l’undici transalpino figuravano dei giocatori di colore e la stampa italiana non si fece attendere, dichiarandosi orgogliosa di non avere tra gli italiani “uomini di cioccolato”.
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Citazione impossibile da fraintendere, anzi testimonianza evidente di come il regime fascista avesse ormai preso il controllo della penisola e non solo: l’avvento della guerra era alle porte, con un Mussolini vigile nel decidere sul da farsi. Anche se la scelta si rivelerà drammatica, per lui e per gli italiani.
“Un’ora segnata dal destino batte nel cielo della nostra patria. L’ora delle decisioni irrevocabili.“
– Benito Mussolini
LA FUGA DEGLI EROI
Fonte: AroundTheFootball
Nel 1940 L’Italia entrò in guerra al fianco di Germania e Giappone. Gli ultimi giorni di pace furono conditi da uno spettacolo calcistico che vide opporsi a San Siro l’Inter e il Bologna, con i nerazzurri che conquisteranno lo scudetto. Gli emiliani stavano vivendo un periodo davvero roseo della loro storia, soprattutto grazie al tecnico Arpad Weisz che trainò i rossoblu in cima all’Europa.
Ex esterno sinistro ungherese, troverà fortuna sedendo sulla panchina dell’allora Ambrosiana-Inter: è qui che negli anni ’30 farà emergere il talento di Giuseppe Meazza, “il balilla con la brillantina”. Tuttavia, dopo aver toccato Bari, si stabilirà a Bologna con moglie e famiglia: qui Arpad Weisz incise il suo nome nella storia. Lo fece già nel 1936 vincendo lo scudetto, ma soprattutto trionfando un anno dopo nella Coppa dei Campioni dell’epoca.
Un lieto fine, se non fosse per il fatto che Mussolini, cavalcando l’ideologia razziale, espellerà tra 1938 e 1939 tutti gli ebrei che figuravano nella scena sportiva italiana. Giocatori, allenatori, persino presidenti come quello dello storico Casale, Raffaele Jaffe.
Si assistette così ad una vera e propria debraicizzazione dello sport: le vittorie nelle discipline sportive avrebbero dovuto manifestare le vittorie della razza italiana. L’evoluzione della guerra non confermò il valore fascista, perché l’Italia e gli italiani perderanno. Nonostante una ferita sempre più profonda, l’amore per il calcio rimase anche durante quei terribili anni di violenza e bombardamenti, soprattutto per volere del regime. L’umore degli italiani andava tenuto alto e il calcio era uno dei mezzi più adatti per farlo.
Fonte: Corriere della Sera
Nemmeno l’intervento degli alleati riuscì a fermare il campionato italiano, che stava regalando ai suoi abitanti una delle storie più belle e allo stesso tempo tristi del nostro calcio. Tra ’42 e ’43, infatti, trionferà il Grande Torino di Loik e Mazzola, tra gli altri. Solo la tragedia di Superga potrà mettere la parola fine a quell’invincibile gruppo granata, nel 1949.
Solo 5 anni prima, invece, durante un freddo gennaio polacco, se ne andò un altro eroe del nostro calcio. Non su un rettangolo verde e nemmeno nella sua casa a Bologna. Ma tra la paura e la drammaticità di Auschwitz. Qui, come altri milioni di persone, Arpad Weisz sarà vittima della disumanità nazifascista.