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TB Diez - L'Arsenal degli Invincibili

Annate da sogno

TB Diez – L’Arsenal degli Invincibili

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L’estate del 2003 e la concomitante sessione di calciomercato sono molto importanti per comprendere l’evoluzione del calcio inglese e le dinamiche che oggi condizionano la Premier League.

Da diversi anni il campionato è dominato dal duopolio Arsenal-Manchester United, rispettivamente dirette dai lungodegenti Arsène Wenger e Sir Alex Ferguson. Le due squadre rappresentano la massima espressione del calcio d’oltremanica, e dal 1997, cioè dall’anno successivo all’insediamento dell’alsaziano sulla panchina dei Gunners, si contendono il titolo. Durante quell’estate però, al dialogo per il primato si aggiunge un’altra voce, quella del Chelsea del nuovo presidente Roman Abramovic.

L’impatto del magnate russo sul calcio inglese – e sul calcio in generale – è folgorante: la sua prima sessione di mercato da presidente la conclude con una spesa complessiva pari a 12o milioni di sterline, una cifra senza senso per l’epoca. Il restyling è totale: in difesa arrivano Glen Johnson e Wayne Bridge, a centrocampo Claude Makélélé e Juan Sebastian Veron mentre in attacco Hernán Crespo. Il tutto orchestrato dal confermato Claudio Ranieri.

Fonte immagine: profilo Instagram Makélélé

Mentre ai piedi di Stamford Bridge i mesi di luglio e agosto sono un susseguirsi di annunci ufficiali e presentazioni in pompa magna, nel nord di Londra, precisamente nel quartiere Arsenal, Arséne Wenger lavora a fari spenti con lo stesso organico che l’anno prima aveva ceduto allo strapotere dell’ultimo grande Manchester United della classe 1992.

Quell’Arsenal è già un gruppo vincente, trasformato dal Boring Arsenal dei primi anni 90 ad una squadra vivace e in grado di centrare obbiettivi. Dall’inizio del nuovo millennio ha messo in bacheca un campionato, due Fa Cup e un Community Shield e durante la precedente stagione Wenger si era detto soddisfatto del livello di gioco raggiunto dalla squadra, lanciando anche una provocazione da nessuno presa sul serio: “Non è impossibile che questa squadra possa vincere un campionato da imbattuta”.

PROTAGONISTI E COMPARSE

I rinnovi di Vieira e Pires chiudono il mercato dei Gunners, il cui 11 base è quasi lo stesso della precedente stagione. Davanti all’unica novità, rappresentata da Jens Lehmann, arrivato dal Borussia Dortmund per sostituire il partente Seaman, campeggiano Sol Campbell, apostrofato ancora oggi come “il traditore” dai tifosi del Tottenham, e Kolo Tourè. Le fasce sono invece occupate dal rampante prodotto dell’Academy Ashley Cole e dal camerunese Lauren. Quest’ultimo reinventato terzino dopo diversi dibattiti con Wenger: “Ho avuto grandi scontri con Lauren, che è venuto molte volte da me per convincermi che non fosse un terzino destro. Io gli dicevo: “Guarda, fidati di me, sei un terzino destro”. E lui rispondeva: “No, non sono un terzino destro. Sono un centrocampista di destra e posso persino giocare a centrocampo come centrale”. Ed io a mia volta concludevo: “Ma puoi fare un magnifico terzino destro.” Dopo un po’ l’ha accettato” racconta lo stesso manager francese.

In mediana ci sono Partick Vieira, capitano e pretoriano di Wenger all’ottava stagione con la maglia dei Gunners, e Gilberto Silva, comunemente definito un brasiliano atipico. Mentre Vieira rappresenta l’archetipo del centrocampista abile ed efficace in ambo le fasi, Silva è essenziale con il pallone tra i piedi ma indispensabile in fase di non possesso, tanto da conquistarsi il soprannome di “The Invisible Wall”.

Quello che nella line up è un 442 viene poi definito dai quattro tenori offensivi. Le due ali, il 7 e l’8, sono due giocatori agli antipodi per look e interpretazione del gioco. Il 7 è Robert Pires, ha i capelli lunghi e lisci, ordinati il più delle volte da una di quelle fascette che nei primi anni 2000 erano incredibilmente cool. Gioca a piede invertito, ama ricevere il pallone tra i piedi e alterna cavalcate sulla fascia ad eleganti conduzione nella fascia centrale, sempre con la sua tipica andatura regale. L’8 è Fredrik Ljungberg, l’anima della squadra, che ha ceduto alla calvizie ed è rimasto vedovo della cresta rossa che anni prima lo aveva reso un’icona di stile a livello mondiale. In campo è lo striker-hunter della squadra, un instancabile maratoneta che si nutre divorando gli spazi creati dai suoi compagni di reparto.

Lo scacchiere è completato dal duo d’attacco Henry-Bergkamp. Il primo, con il numero 14 stampato sulla schiena, è il Sole della squadra: bomber ineffabile e rifinitore illuminato nel pieno del suo splendore. Svaria su tutto il fronte offensivo, con una leggera tendenza a sovraccaricare il lato sinistro, dove con Pires e Cole è in totale simbiosi. Infine c’è Dennis Bergkamp, protagonista di una delle ultime recite della sua carriera. L’olandese è il regista avanzato della squadra, colui che la ordina e disordina a suo piacimento. L’impatto in termini realizzativi sarà in tono minore rispetto alle precedenti stagioni (così come il minutaggio), ma quando lui è in campo i Gunners suonano una sinfonia diversa. A completare l’organico c’è una lunga lista di comprimari più o meno importanti: in difesa il veterano Keown e il rincalzo Cygan, a centrocampo Parlour e Edu e in attacco Wiltord, Kanu e Aliadière.

UNA POLTRONA PER TRE

Con la consapevolezza di avere dalla propria il fattore continuità, l’Arsenal si affaccia fiducioso alla stagione 2003-2004. Non lo fa, però, nel migliore dei modi. L’errore dal dischetto di Pires consegna il Community Shield al Manchester United, al termine di una partita combattuta e trascinata ai calci di rigore dai gol di Henry e Silvestre.

La cocente delusione viene però subito accantonata con l’inizio della Premier League. Dopo le prime 5 giornate i Gunners sono in vetta alla classifica assieme al Chelsea, con il Manchester United che insegue a un punto di distanza. La giornata successiva presenta il primo snodo fondamentale della stagione: l’Arsenal fa visita ai Red Devils, in quella che verrà tramandata ai posteri come la “Battaglia di Old Trafford”. Il sottile filo che tiene in bilico la partita per circa 80 minuti viene spezzato dalla discussa espulsione di Patrick Vieira. Rimasto in 10 l’Arsenal subisce il violento assalto dei padroni di casa, che raggiunge il suo climax quando a pochi secondi dallo scoccare del 90esimo l’arbitro concede un rigore per una presunta spinta di Keown su Scholes. Dopo infinite polemiche dal dischetto di presenta Ruud Van Nistelrooy, uno dei più attivi nei parapiglia precedenti alla battuta. La tensione gioca un brutto scherzo all’olandese, che vede il suo destro infrangersi sulla traversa. All’errore farà seguito un’irriverente esultanza di Keown in faccia all’attaccante del Manchester United, casus belli di una serie di scontri che si protrarranno anche nel post-partita.

Gli strascichi della battaglia non avranno effetti negativi sulle due squadre – nonostante diverse giornate di squalifica per alcuni uomini di Wenger – che anzi da quella gara in poi metteranno in fila tre vittorie consecutive. Se quelle dello United arriveranno contro squadre abbordabili, i Gunners dovranno vedersela prima contro il Newcastle di Alan Shearer, poi contro il Liverpool ed infine contro il Chelsea capolista. Per superare i Magpies ci vorrà il miglior Henry, autore del gol del momentaneo vantaggio e del rigore decisivo, realizzato con uno scavetto. Ad Anfield sarà invece una pennellata d’autore di Robert Pires a decidere la gara, dopo che il gol di Owen in apertura l’aveva messa in salita. La vittoria in casa del Liverpool è uno spartiacque fondamentale per comprendere l’essenza di quell’Arsenal. Il giorno dopo la gara l’inviato del Times Oliver Kay commenta così la prestazione della squadra di Wenger: “Le ultime partite hanno insegnato loro a mettere la sostanza davanti allo stile. Potrebbe essere meno attraente per i puristi, ma non c’è dubbio che un aproccio più robusto gli abbia resi più temibili. Un anno fa producevano un calcio di uno splendore raramente visto in questo paese o altrove (85 gol stagionali e miglior attacco del campionato, n.d.r.). In questa stagione, con una fluidità che si è rivelata sfuggente, stanno ottenendo grandi risultanti in modo più efficiente”.

Si arriva dunque allo scontro di vertice contro il Chelsea, che non ha patito la rivoluzione tecnica e societaria rimanendo imbattuto per 8 giornate. I Gunners si impongono ad Highbury grazie a due gol sporchi di Edu ed Henry, inframmezzati da una saetta dai 25 metri di Crespo che aveva riportato a galla i blues.

Come anticipato prima, e diversamente da quanto si possa pensare, soprattutto riguardando le ultime versioni dell’Arsenal di Wenger, quella squadra riprendeva in toto i tratti distintivi del calcio inglese dell’epoca. Era una squadra fisica, soprattutto nella fascia centrale, con quattro blocchi di granito come Campbell, Tourè, Vieira e Silva a proteggere l’area. Non aveva l’ambizione di dominare la gara sempre con il pallone tra i piedi, nè di aggredire l’avversario con un pressing ultraoffensivo. In fase di possesso seguiva pochi pattern codificati, ma sviluppava le azioni ricercando la verticalità e sfruttando il continuo movimenti degli uomini offensivi. Un moto perpetuo che rendeva lo scaglionamento in fase offensiva estremamente fluido, con le ali e le punte pronte ad interscambiarsi in ogni occasione. Questa interpretazione della fase di possesso era la più grande innovazione di quell’Arsenal e rappresentava un bug per i sistemi difensivi di quell’epoca, ancora troppo statici per reagire al caos creato dai Gunners.

Nel gol che certifica la vittoria sul campo del Birmingham – aperta dai gol di Ljungberg e Bergkamp – Henry (al terzo assist della sua partita) agisce da ala sinistra, mentre Pires, che riceve il passaggio del connazionale e con un tocco delicato deposita in rete, prende il suo posto come riferimento centrale. Da notare anche la perfetta distribuzione orizzontale degli uomini, con Bergkamp e Ljungberg a riempire l’area e l’accorrente Kanu posizionato al limite.

Questo stile di gioco, in aggiunta alla necessità di rendere più profondo il reparto offensivo, convinceranno la società a fare l’unico grande investimento di quella stagione. Infatti, nel mercato di gennaio arriva dal Siviglia, per circa 20 milioni di euro, il compianto Josè Antonio Reyes, messosi in mostra sin da giovanissimo tra le fila degli andalusi.  

“Abbiamo un gioco basato sul movimento, la tecnica e la velocità. Reyes ha tutte queste cose e l’abbiamo seguito per un anno”

commenterà Wenger il giorno della sua presentazione.

Nonostante un ruolino di marcia impeccabile (12 vittorie e 6 pareggi), al mercato di gennaio in vetta alla classifica ci arriva il Manchester United di Ferguson, che dopo la bruciante sconfitta con il Chelsea non commette più passi falsi e si laurea campione d’inverno. L’Arsenal segue ad un punto di distanza, complice qualche pareggio di troppo. Per il Chelsea di Ranieri invece, sono la sconfitta casalinga con il Bolton e il clamoroso tonfo in casa del Charlton i bruschi stop che costano la vetta.

BELLI E INVINCIBILI

L’egemonia dei Red Devils dura però poche settimane, perchè i 5 punti persi tra Newcastle e Wolverhampton permettono all’Arsenal di riprendere la testa del gruppo. É nella parte centrale del girone di ritorno che i Gunners innescano la marcia alta e seminano le contendenti. Il pareggio di Goodison Park è l’ultimo mezzo inciampo prima di una lunga sfilza di vittorie che miete vittime celebri come il Manchester City e, ancora una volta, il Chelsea. A Stamford Bridge il gol di Gudjohnsen illude i blues prima della rimonta degli ospiti, ulteriore segnale della grande fiducia che serpeggia tra i giocatori. Il gol del pareggio è un trattato di analisi e gestione degli spazi scritto a tre mani da Bergkamp, Vieira e Pires.

Il francese sfrutta un recupero alto di Pires, appoggia a Bergkamp e prosegue la sua corsa senza palla. L’ex Ajax stoppa, alza la testa e, come sempre, legge prima degli altri lo sviluppo dell’azione. Avrebbe alla sua destra due compagni da servire, ma capisce che l’intelligente taglio in profondità di Pires potrebbe aprire una voragine nella difesa avversaria. In una frazione di secondo prima finge di servire con l’interno Pires e poi, con un esterno destro con il contagiri, mette in porta Vieira. A ribaltare il match ci penserà Edu, con il secondo gol in due partite di campionato al Chelsea.

La striscia di vittorie si fermerà a 9 partite, interrotta dalla zampata di Louis Saha agli sgoccioli dello scontro diretto finito in parità contro il Manchester United. Ad aprire le danze, per l’Arsenal, ci aveva pensato Henry con un collo-esterno di stordente bellezza. Il rocambolesco pareggio, che comunque permette ai Gunners di mantenere 7 punti di vantaggio sul Chelsea e addirittura 12 sui Red Devils, sarà l’incipit del periodo più complicato della stagione per gli uomini di Wenger. In meno di una settimana vengono eliminati prima dalla Fa Cup e poi, soprattutto, dalla Champions League, per mano del Chelsea ai Quarti di Finale. I blues, definiti da Wenger l’unica squadra in grado di poterli battere quell’anno, prima si accontentano di un pari a Stamford Bridge e poi, al termine di un secondo tempo di fuoco, si impongono per 2 a 1 ad Highbury. Il giustiziere dei Gunners è Wayne Bridge, che fa seguito al gol di Reyes e al pareggio di Lampard.

https://youtu.be/yi3fnFXxzlo

Con il morale sotto i tacchetti l’Arsenal ospita il Liverpool per uno degli ultimi grandi impegni di campionato. La differenza tra le due squadre si nota sin dai primi minuti in ogni aspetto del gioco, ma grazie a due sortite offensive i Reds riescono ad andare al riposo in vantaggio per 2 a 1. Il primo gol lo realizza Hyppia, a cui fa seguito Henry, mentre il nuovo vantaggio degli ospiti lo firma Owen su assist visionario di Gerrard. Dagli spalti di Highbury cominciano ad udirsi i primi brusii di disapprovazione, mischiati al timore di vedere il castello costruito durante tutta la stagione crollare a pochi metri dal traguardo. L’intervallo però arriva come un toccasana, e rinvigorisce i padroni di casa. Il rientro in campo è tramortente: una combinazione a tutta velocità tra Henry, Ljungberg – la cui sensibilità tecnica passa spesso in secondo piano – e Pires permette a quest’ultimo di realizzare il 12esimo gol in campionato (a fine stagione saranno 14). Due minuti dopo, sul punteggio di 2-2, entra in scena Titì Henry.

Il francese sta vivendo la migliore stagione della sua carriera, da quando ha lasciato la Juventus per accasarsi nel Nord di Londra le sue prestazioni sono migliorate costantemente, anno dopo anno. Nel 2004 è indiscutibilmente il miglior giocatore del mondo e nel momento più importante della stagione non fa altro che dimostrarlo. Riceve il pallone poco più avanti del centrocampo e si avventura in uno slalom gigante tra le maglie avversaria agile come un levriero. Arrivato davanti al portiere, con la solita precisione chirurgica, deposita il pallone in rete, prima di lanciarsi in una prolungata esultanza impregnata della superbia che lo contraddistingue. Rivedere l’azione più volte dà una percezione sempre più nitida della differenza tra lui e chi lo circonda: mentre corre e aumenta la falcata con estrema naturalezza gli avversari sembrano fare la stessa cosa con il triplo della fatica, come se avessero un peso da trainare sulle spalle. A mettere il punto esclamativo sulla vittoria ci penserà ancora lui, con una carambola fortunata che fa da contraltare al gol segnato una manciata di minuti prima.

L’ennesima vittoria in rimonta in uno scontro al vertice darà il colpo di grazia alle contendenti. Lo United si è da tempo arenato, mentre nelle ultime giornate cede il passo anche il Chelsea, che con il pareggio casalingo contro l’Everton regala alla capolista l’occasione di festeggiare il titolo a White Hart Lane, sul campo del Tottenham eterno rivale. Vieira e Pires lanciano i Gunners verso un trionfo in terra nemica, ma Redknapp e Keane non ci stanno e riequilibrano la gara. Il pareggio però è sufficiente, l’Arsenal è campione d’Inghilterra. L’errore di Lehmann sul rigore concesso nel finale a Keane non va però giù a Campbell, che durante i festeggiamenti va a muso duro contro il portiere tedesco: “Eravamo campioni, ma c’era quasi una rissa tra Sol e Jens! Ti mostra quanto questi ragazzi fossero vincenti. Abbiamo dovuto calmarli nel camerino:”Ragazzi, abbiamo vinto il campionato, dai!” svelerà Wenger anni dopo. Lo stesso Lehmann confermerà come nonostante i grandi risultati la squadra si alimentasse grazie a continui scontri fra compagni: “La gente credeva che ci fosse una grande atmosfera in quella squadra, ma ad essere sinceri non era così. Discutevamo di tutto, ogni giorno. Tutti volevamo vincere e sono state proprio quelle discussioni a farci comportare così bene sul terreno di gioco”.

Archiviata la pratica titolo, per trasformare in leggendaria una grande annata all’Arsenal manca solo concludere con la casella delle sconfitte immacolata la stagione. L’unica squadra ad esser riuscita nell’impresa era stata il Preston North End nel lontanissimo 1889, in un campionato che prevedeva solo 22 partite. Ai Gunners di ostacoli ne mancano 4, che con qualche fisiologico affanno e grazie ai gol e alla freschezza di Reyes vengono aggirati senza intoppi. L’ultima gara, in casa contro il Leicester, funge simbolicamente da compendio della stagione degli Invincbili: vittoria ottenuta in rimonta, Bergkamp che confeziona l’ennesimo assist geniale della sua stagione ed Henry che dal dischetto fa 30 in campionato.

DA INVINCIBILI A IRRIPETIBILI

La striscia di imbattibilità si protrarrà per altre 9 partite nello scoppiettante avvio della stagione successiva, raggiungendo quota 49. Ad interromperla sarà, come in un cerchio che si chiude, il Manchester United, trascinato da una doppietta al sapore di vendetta di Van Nistelrooy. Nella sua autobiografia Sir Alex Ferguson racconterà di come dopo quella partita il suo rapporto con Wenger si sia incrinato, in quanto reo di non esser stato in grado di accettare la sconfitta. Il tradizionale caos post gara, scatenato proprio dai due manager, questa volta costerà caro all’Arsenal, che nelle successive partite perderà la bussola offrendo il fianco al nuovo Chelsea targato Josè Mourinho.

Quel gruppo si sfalderà lentamente, pezzo dopo pezzo, chi per motivi economici e chi, come Henry e Vieira, per compiere un ulteriore step nella loro carriera. Il canto del cigno sarà la Champions League 2005-06, tassello mancante del mosaico sfuggito nella Finale di Parigi contro il Barcellona dopo aver disputato l’intera partita in dieci. L’anno dopo mezza squadra leverà le tende, e sull’epopea degli Inivicibili calerà la notte, così come sulle tribune di Highbury, sostituito dall’avveniristico Emirates Stadium.

Da quella stagione nessun’altra versione dell’Arsenal di Wenger e, in generale, nessun’altra squadra inglese riuscirà ad imprimere lo stesso dominio tecnico, fisico e mentale sulla Premier League per un tempo così prolungato. Un gruppo irripetibile, formato da giocatori prima di tutto intelligenti – come ama definirli il loro mister – e che rappresentò la massima espressione di un progetto tecnico mai più così splendente.

 

Immagine in evidenza dal profilo Instagram @robert_pires07

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L’ultima grande Lazio: la stagione 1999/2000 e la Champions League

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veron lazio

La Lazio torna dopo due anni di assenza a competere nella Champions League. I biancocelesti, nel gruppo E con Atletico Madrid, squadra con cui esordirà questa sera, Celtic e Feyenoord, potranno dire la loro per il passaggio del turno. Sarri dovrà trovare la migliore Lazio possibile nonostante il brutto avvio in campionato ma che ha fatto vedere le migliori qualità ad esempio nella vittoria contro il Napoli. Fra giocate di squadra nello stretto ed individuali, come Luis Alberto, probabilmente il miglior giocatore in questo momento, la formazione schierata dal tecnico toscano cercherà di esprimere il calcio migliore da proporre contro un avversario ostico, che preferisce lasciar giocare gli avversari.

A ritrovarli nel loro esordio della massima competizione europea sarà l’Atletico Madrid, con il Cholo Simeone sempre a guidare i Colchoneros. Proprio l’argentino ha vissuto uno dei migliori momenti della carriera nella Capitale, sponda ovviamente biancoceleste. All’epoca giocatore e centrocampista, Simeone ha fatto parte di una rosa straordinaria che ha conquistato il titolo di campione d’Italia nella stagione 1999/2000. Proprio in quella cavalcata, parallelamente alla Serie A, la Lazio ha raggiunto il miglior risultato di sempre nella sua storia in Champions League.

Andiamo quindi a scoprire la rosa diventata storica per il club visti i traguardi raggiunti.

“Mi viene la pelle d’oca ricordando gli anni in cui i tifosi mi amavano tantissimo e mi davano sempre tanto calore. Sono stati anni di calcio ben giocato qui e abbiamo vinto tanto insieme”.

Diego Simeone nella conferenza stampa pre Lazio-Atletico Madrid

LA ROSA CAMPIONE D’ITALIA

La miglior Lazio capace di raggiungere i quarti di finale della Champions League ha una rosa storica e iconica per ogni tifoso della squadra capitolina. Guidati da Sven-Goran Eriksson, allenatore svedese conosciuto per il suo gioco combattivo e cinico, i biancocelesti saranno infatti una formazione molto unita, che non verranno spesso trascinati da un singolo. Una vera e propria coesione dove titolare o subentrante sapeva perfettamente cosa svolgere in campo. Lo dimostra soprattutto la cifra dei gol segnati dal principale attaccante, Marcelo Salas, che siglerà 12 gol in Serie A e sarà anche l’unico della rosa a superare la doppia cifra.

In porta, Luca Marchegiani era il titolare. La difesa veniva composta da una linea a 4 con Giuseppe Pancaro e Paolo Negro, sulla corsia sinistra e di destra, a completare il reparto difensivo composto dai due centrali Nesta e Mihajlovic, difensori forti nel contrasto ma dalla tecnica raffinata, soprattutto per il serbo, data anche la grande quantità di punizioni segnate in carriera. Abili dunque a far ripartire l’azione, i centrali venivano spesso schermati ed aiutati nella fase difensiva da un mediano: Sensini in primis e Almeyda poi erano designati perfettamente in questo ruolo. L’ex Parma e Udinese riusciva a ricoprire anche più ruoli come il terzino o il difensore centrale per via delle sue grandi doti difensive, ma dal piede abile per l’impostazione.

Il centrocampo era poi formato da altri due argentini ad accompagnare l’azione: Juan Sebastian Veron e Diego Simeone appunto, autore del gol che riaprirà la corsa scudetto contro la Juventus. Per l’ex Parma sarà a livello realizzativo la miglior stagione dal punto di vista realizzativo, con doppia cifra raggiunta fra Serie A e Champions. Per il Cholo invece, dotato di grande corsa e anche senso dell’inserimento per colpire di testa, veniva affidato un ruolo per aiutare il regista. Sugli esterni, ecco che si trovavano i due equilibratori della squadra, abili nell’aiutare la squadra anche in fase difensiva ma soprattutto a cambiarne il volto in attacco. Nedved a sinistra e Conceicao sulla destra erano in grado mettere in difficoltà l’uomo, il primo con la palla al piede e dagli strappi micidiali, il portoghese invece con la sua intelligenza tattica per gli inserimenti.

In attacco, troviamo due attaccanti principali: Marcelo Salas, che come detto in precedenza è risultato il miglior marcatore della squadra, e Simone Inzaghi. I due attaccanti non risultavano quasi mai in campo contemporaneamente, con il cileno preferito da Eriksson per la sua abilità nel giocare sul corto per via della tecnica eccelsa, mentre Inzaghi preferito per il lancio lungo alla ricerca della profondità. In rosa erano poi presenti altri elementi dove spiccano soprattutto i nomi di Dejan Stankovic, ancora acerbo per guadagnare un ruolo fondamentale con questi giocatori in campi, e l’ex Juventus Boksic che insieme a Mancini hanno svolto per lo più il ruolo di seconde punte. Per via dei tanti problemi fisici i due non hanno saputo dare il contributo decisivo alla squadra.

L’AVVENTURA IN CHAMPIONS LEAGUE

La Lazio nel 1999/2000 disputa la sua prima Champions League della storia. Qualificata come seconda nel campionato precedente e dalla forza della squadra, giunge come formazione più forte del suo girone. Sorteggiata nel gruppo A, finisce insieme all Dinamo Kiev, Bayer Leverkusen e Maribor. Rispettando le aspettative, la Lazio conclude alla grande la prima fase a gironi vincendo 4 partite e pareggiando le restanti. Nelle seconda fase le cosi si fanno più complicate visto anche il livello degli avversari: nel gruppo con il Chelsea di Zola, il Feyenoord e Marsiglia i biancocelesti perdono la loro prima partita con gli olandesi. Ma il pareggio all’Olimpico e la decisiva gara giocata a Stamford Bridge vinta contro i Blues per 2-1 grazie alla rete da vero numero 9 di Inzaghi ed alla straordinaria punizione di Mihajlovic. Con i francesi invece arrivano due vittorie.

La corsa verso il sogno più importante si interrompe però ai quarti di finale, quando la Lazio pesca il Valencia, futura finalista di quella competizione. Prima al Mestalla gli spagnoli si impongono con un grande 5-2, quasi impossibile da rimontare. Infatti, il gol di Veron risulterà inutile nella gara di ritorno, finita 1-0 per i padroni di casa.

I TRAGUARDI RAGGIUNTI

Nonostante l’amarezza dell’eliminazione in Coppa, a livello europeo la Lazio può vantarsi di un prestigioso trofeo internazionale vinto a inizio stagione: la Supercoppa Europea. Contro il Manchester United di Sir Alex Ferguson campione d’Europa in carica, con un gol di Salas la squadra di Eriksson si impone per 1-0. Dopo un match di campionato contro il Sunderland, tanti anni dopo lo scozzese rilasciò questa intervista riguardo ai ricordi più amari dopo 25 di fila sulla panchina dei Red Devils. Uno di questi fu proprio legato alla Supercoppa del 1999:

“Nel 1999 abbiamo perso la Supercoppa Europea contro la Lazio che in quel momento era la migliore squadra al mondo ed è forse questo il ricordo più amaro”.

Oltra alla Serie A conquistata all’ultima giornata, anche la Coppa Italia, terza nella storia della Lazio, viene vinta dai biancocelesti, assoluti dominatori in Italia in quella stagione. Nella doppia finale contro l’Inter è decisiva la gara di andata vinta per 2-1, mentre al ritorno ci sarà solo uno 0-0.

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Tre italiane in finale nelle coppe europee: fortuna o rinascita del nostro calcio?

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Inter, Lautaro viene insidiato da Barella nel ruolo di nuovo capitano interista

È indiscutibilmente l’anno dell’Italia, almeno per quanto riguarda il mondo del calcio. Tre italiane in finale nelle tre coppe europee era qualcosa di difficilmente pronosticabile a inizio anno. E non solo: quello che stupisce ancora di più è il numero delle squadre che sono riuscite a farsi strada durante il loro cammino nelle competizioni continentali. Abbiamo portato ben tre team ai quarti di finale di Champions League, due in semifinale di Europa League (in cui abbiamo sfiorato una finale tutta italiana) e, per la seconda volta consecutiva, una in finale di Conference League.

Non si può non elogiare il percorso e la crescita di quasi tutte le compagini della nostra nazione e in molti si sono chiesti se questo non possa essere il punto di partenza per un nuovo dominio italiano in Europa, come fu a cavallo fra gli anni ’90 e i primi del 2000. La domanda ha ovviamente senso, non solo considerati i risultati di questa stagione ma anche per il fatto che la nostra Nazionale (pur non riuscendo tristemente a qualificarsi per il Mondiale) è la detentrice del titolo europeo, conquistato appena due anni fa.

Altri, un po’ più pessimisti, hanno tirato in mezzo anche la fortuna di aver avuto dei sorteggi favorevoli. E quindi a cosa credere? Abbiamo realmente avuto solo fortuna o c’è qualcosa in più? Affrontiamo la questione con una semplice analisi dei fatti per scoprire a che punto è il nostro calcio e se potremmo rivedere questo exploit delle nostre squadre nel prossimo futuro.

LE DIFFERENZE FRA CHAMPIONS, EUROPA E CONFERENCE LEAGUE

Sarebbe fuorviante affrontare la questione in maniera unica per tutte le squadre italiane e anche farlo non considerando le differenze fra le tre coppe europee. Champions, Europa e Conference League sono, infatti, tre competizioni studiate per fini diversi e per compagini diverse. Prendiamo in considerazione l’Europa League e la Conference League. Come sappiamo queste coppe sono un’opportunità per le squadre di medio/alto livello del panorama calcistico continentale. Non indicano la squadra più forte d’Europa ma ci aiutano a valutare un parametro importantissimo: il livello dei vari campionati europei.

La salute della classe media è in molti casi un sintomo della salute di una società e, nel mondo del calcio, queste due competizioni sono quelle che più di tutte ci indicano lo stato di salute di un movimento. Nel caso dei club italiani, possiamo tranquillamente dire che, visti i risultati in queste competizioni in questi ultimi anni, il nostro calcio sta molto più che bene.

In EL abbiamo avuto quattro squadre arrivate almeno in semifinale nelle ultime quattro edizioni e in ECL per la seconda volta di fila una nostra squadra può giocarsi la coppa. Questo ci porta a ragionare sul fatto che il livello medio della Serie A è molto alto anche rispetto agli altri campionati europei di punta. Se ci riflettete, questo è anche il motivo per il quale la lotta Champions in queste ultime stagioni del campionato italiano si è fatta sempre più avvincente.

Un livello tale che ha fatto sì che venissero create delle rose altamente competitive per queste due competizioni e l’auspicio per il futuro è che le italiane possano ambire di anno in anno alla vittoria di queste due coppe europee. Purtroppo, va fatto un discorso diverso per la terza coppa, la più importante, la Champions League.

IL CAMMINO DELLE ITALIANE IN CHAMPIONS LEAGUE

La coppa “dalle grandi orecchie” è quella che racchiude l’élite del calcio europeo. Non solo, è anche innegabile come siano sempre i soliti top club del continente ad accedere alle fasi più avanzate del torneo. Squadre come Manchester City, Real Madrid, Bayern Monaco, tutti squadroni pensati per vincere il trofeo ogni anno. In questa stagione abbiamo però assistito a un vero e proprio dominio del nostro calcio anche nella manifestazione più importante.

Tolta la Juventus, l’unico club che rispetto ai precedenti anni ha avuto una flessione, Inter, Milan e Napoli hanno dimostrato, aiutate anche da un campionato maggiormente competitivo e, dunque, più “allenante”, di avere delle rose molto ben attrezzate anche per poter dire la loro. E, soprattutto, di poter giocare un calcio al livello di quello dei top club europei.

L’Inter, per arrivare fino in fondo, ha dovuto superare un girone di ferro con Bayern Monaco e Barcellona. Il Napoli ha affondato il Liverpool, finalista della precedente edizione, e ha, per lunghi tratti, giocato un calcio tra i migliori d’Europa. Il Milan è rinato grazie allo strepitoso lavoro di Pioli e Maldini. Tutte realtà in crescita, come lo sono anche Roma, Lazio e Fiorentina. Ma, dunque, possiamo ripetere l’exploit di quest’anno anche nelle prossime Champions League?

QUANTO HA INFLUITO LA FORTUNA?

Purtroppo dobbiamo anche affrontare il fatto che, probabilmente, abbiamo anche avuto un po’ di fortuna. Come ci ha insegnato Niccolò Machiavelli non dobbiamo sottovalutare l’operato di questa forza che l’uomo può a volte controllare, ma che spesso va al di là delle nostro operato.

È innegabile, quindi, che il sorteggio dei quarti di finale, che ha posto ben tre italiane in un lato del tabellone, è stata una contingenza che ha influito molto sul prosieguo della competizione. Una situazione che difficilmente potremo rivedere nei prossimi anni, salvo eventuali ulteriori aiuti della Dea bendata. Quindi? Dovremmo prendere questa strepitosa stagione delle italiane nelle coppe europee come unica e irripetibile e frutto solo della fortuna?

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Come abbiamo detto, è innegabile il miglioramento di quasi tutte le nostre squadre da un punto di vista tecnico, tattico e gestionale. È vero, la fortuna ha in parte influito, ma non si possono nascondere le virtù delle nostre società. Ecco, proprio questa parola sarà il cardine dei prossimi anni del calcio italiano. Non a caso un concetto nuovamente machiavellico: la virtù, ovvero la forza che l’uomo contrappone alla fortuna, quando questa decide di voltarci le spalle.

Se per Europa League e Conference League la forza delle nostre squadre ci permetterà di lottare sempre per la vittoria, per la Champions League ci troveremo, già dall’anno prossimo, a fare i conti con delle realtà superiori a noi. Ma non possiamo lasciarci sfuggire l’opportunità che questa stagione calcistica ci ha offerto, ovvero quella di dimostrare che anche noi possiamo tornare ad ambire a grandi traguardi.

Il nostro movimento può e deve ripartire da questa stagione per poter progredire ulteriormente e le nostre società muoversi per far sì che questo non sia un anno unico e irripetibile, ma che, col tempo, diventi la norma. Far sì che, con le proprie forze, i club italiani riusciranno a raggiungere posizioni di vertice nelle coppe europee (anche in Champions League) a prescindere dall’aiuto che la fortuna sceglie di offrirci.

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Henrikh Mkhitaryan: l’equilibratore dell’Inter

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Mkhitaryan

L’acquisto di Henrikh Mkhitaryan nella scorsa finestra estiva di mercato da parte dell’Inter è stato uno di quei colpi che non hanno di certo esaltato i tifosi. Non che sia stato un acquisto criticato, ovviamente, ma neanche uno di quei colpi col botto. Un centrocampista, arrivato a parametro zero, in grado di aggiungere qualità alla manovra ma, in fin dei conti, solamente un buon rimpiazzo per Calhanoglu o Barella. Nulla di più di un completamento del roster nerazzurro.

In pochissimi di noi si sarebbero però aspettati una sua centralità nello scacchiere tattico di Simone Inzaghi oggi, alla vigilia di una storica semifinale di ritorno di Champions League. In una stagione in cui Mkhitaryan è sì partito inizialmente dietro nelle gerarchie dell’Inter, ma è risultato, alla lunga, decisivo per lo strepitoso percorso dei nerazzurri in tutte le competizioni.

DUTTILITÀ

L’intelligenza, qualora volessimo prendere dei parametri per giudicarla, si nota anche dalla flessibilità e dalla duttilità di una persona. Al sapersi ambientare al contesto anche a prescindere dalle difficotà. Ebbene, questo concetto calza perfettamente alla personalità di Mkhitaryan. Una persona, prima ancora che un calciatore, che ha saputo adattarsi e trarre il meglio da ogni esperienza. Parla sette lingue: armeno, russo, inglese, portoghese, francese, tedesco e, ovviamente, l’italiano. Con un laurea conseguita all’Istituto di Cultura Fisica in Armenia.

Nel frattempo ha insegnato calcio in Germania, al Borussia Dortmund di Jurgen Klopp, poi in Inghilterra all’Arsenal e al Manchester United. Ed è proprio qui che la sua intelligenza calcistica prende forma. Mkhitaryan è un tuttofare, un centrocampista in grado di ricoprire ogni zona del campo, dal trequartista all’esterno, con una tecnica unica ma, soprattutto con uno spirito di sacrificio unico.

Infine, l’arrivo in Italia. Alla Roma parte da trequartista, giocando in maniera superlativa, salvo poi arretrare il suo raggio d’azione come mediano insieme a Cristante. Ruolo in cui il suo apporto passa molto più in sordina ma grazie al quale diventa essenziale per Mourinho, sia in Campionato che in Conference League. Da questa stagione all’Inter, per Mkhitaryan si prospettava un progressivo declino, soppiantato dai vari Brozovic, Barella e Calhanoglu, titolari inamovibili per Inzaghi. Ma ecco che il suo apporto è tornato a essere determinante anche a Milano in un nuovo ruolo, quello di mezzala, grazie al quale l’armeno è diventato fondamentale per i nerazzurri.

LA SUA IMPORTANZA PER L’INTER

La sua intelligenza rara lo ha portato a rendersi indispensabile per le logiche tattiche di Inzaghi. Certo, nel suo passaggio a un ruolo da titolare ha inciso molto l’infortunio di Brozovic, ma la sostituzione del croato con Calhanoglu come vertice basso di centrocampo è stata anche permessa proprio dall’armeno.

Come dicevamo, il sapersi adattare è una delle caratteristiche delle persone illuminate, e Mkhitaryan ha un’abilità speciale nel sapersi muovere in sintonia con i suoi compagni di reparto. La sua accuratezza nei movimenti senza palla gli permette di smarcarsi per offrire una linea di passaggio. La tecnica gli permette di gestire il possesso, sia facendo fluire il pallone con velocità, sia portando egli stesso la sfera in conduzione. La sua tenacia e il suo spirito di sacrificio (pur essendo un 34enne) lo portano, inoltre, a unire alle sue doti qualitative quelle quantitative che per caratteristiche non dovrebbero competergli.

È così che lo si trova spesso a intercettare le linee di passaggio avversarie o andare a contrasto. O anche a sopperire alle avanzate offensive di Calhanoglu, retrocedendo ulteriormente la sua posizione. O, al contrario, sfruttare le sue doti nell’inserimento per spingersi in area quando Barella è impossibilitato a farlo. Sono tutte doti che il numero 22 mette di partita in partita a disposizione dei nerazzurri. Mkhiratyan è il tuttocampista perfetto per l’Inter, l’ago della bilancia essenziale sia in fase offensiva che difensiva.

Non a caso, anche la sua collocazione tattica la dice lunga. Il ruolo di mezzala sinistra, che possiamo definire a tutti gli effetti come il secondo regista della squadra, che, prima di lui e Calhanoglu, fu di un altro illuminato del gioco come Christian Eriksen. E in cui lo stesso Inzaghi adattò, nei suoi anni alla Lazio, Luis Alberto, la fonte creativa di maggior spicco dei biancocelesti in quegli anni. Un ruolo che, dunque, richiede doti uniche per un giocatore, soprattutto per quanto riguarda l’intelligenza tattica. E chi se non Henrikh Mkhitaryan poteva essere l’uomo giusto per ricoprirlo?

 

 

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Annate da sogno

L’eterno Modric contro lo scorrere del tempo

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modric arabia saudita

È ormai quasi certo il rinnovo di Luka Modric con il Real Madrid. Il centrocampista croato prolungherà ulteriormente la sua già strepitosa carriera, regalandoci il lusso di vederlo giocare anche nella prossima stagione con la camiseta blanca, quando compirà 38 anni. Quasi a non volerci concedere i commenti lusinghieri con il quale vorremmo elogiarlo al termine della sua carriera. No, lui è e continuerà ad essere il faro che illumina le notti del Santiago Bernabeu, beffandosi persino del Padre Tempo.

Certo, ormai siamo sempre più abituati a vedere le carriere dei giocatori prolungarsi fino a tarda età. Visto che siamo in un’epoca di veri e propri super atleti che, in alcuni casi, riescono a fronteggiare anche l’inesorabile scorrere del tempo. Ma per Modric bisognerebbe fare un discorso a parte, visto il ruolo peculiare che riveste, quello del centrocampista. Un giocatore che dovrebbe teoricamente essere il “motore” della squadra, sia dal punto di vista mentale che fisico. Ebbene, il diez croato ha sicuramente dovuto sviluppare un’intelligenza fuori dal comune (e non solo calcistica) per saper essere ancora così decisivo in uno dei club più prestigiosi al mondo e nelle competizioni più importanti. E soprattutto, a saper andare oltre i limiti impostigli dall’età.

UN DOMINIO CHE DURA DA UN DECENNIO

Grazie al suo imminente rinnovo con il Real Madrid, Modric si appresterà a vivere la sua undicesima stagione con le Merengues. Un traguardo assurdo se consideriamo che la carriera del Folletto di Zara in Spagna non era iniziata nel migliore dei modi. Dopo la prima stagione, molti sostenitori madridisti lo additavano addirittura come il peggior acquisto della storia dei Galacticos.

Serve l’arrivo di Carlo Ancelotti l’anno successivo per porlo definitivamente al centro del Real Madrid e a portarlo nell’Olimpo del calcio. Già dalla vittoria della Décima, propiziata proprio da un suo assist per il gol di Sergio Ramos allo scadere della finale contro l’Atletico Madrid.

Da lì inizia la mistica del Real di questo decennio, capace di dominare il calcio continentale come nessuno mai nella storia. Dopo la Décima, arriva il trittico di trionfi dal 2016 al 2018. Un three-peat che non era mai successo in epoca moderna. Modric è al centro del gioco. La stella è ovviamente Cristiano Ronaldo, ma il tempo saprà anche effettivamente svelare che, dietro al magistrale lavoro di CR7 sotto porta, si celava anche il genio tattico e tecnico del trequartista croato. Che, infatti, sopravanza il portoghese proprio nel 2018. Al Mondiale in Russia, Modric trascina la Croazia a una storica finale, che gli vale anche il Pallone d’Oro della stagione, scavalcando proprio il nativo di Madeira.

Ecco, sembrava proprio quello il canto del cigno. Dopo quell’incredibile anno, sia il talento di Modric che l’efficienza di quel Real Madrid parevano affievolirsi fino a sembrare anche anacronistici per il calcio ultra fisico di questi ultimi anni. O forse era solo una pausa scenica, prima del ritorno della scorsa stagione. In cui la Casa Blanca torna a dettare legge in campo europeo, ammantata da un alone di invincibilità che ha più a che fare con il misticismo che con le logiche sportive. Il trionfo in Champions e in Liga della stagione 2021/22, il ritorno della Croazia sul podio mondiale, tutte gesta in cui Modric è uno degli artefici massimi. Decisivo come non mai nonostante il sacrificio dal punto di vista fisico che il tirannico Padre Tempo gli chiede di volta in volta.

Eppure Modric è sempre lì, all’apice, quasi come se anche il tempo, oltre che lo spazio sul terreno di gioco, si pieghino al suo volere. A un passo dall’ennesima semifinale in Champions League con il suo Real Madrid, che prima di accantonarlo deve prima scontrarsi sempre con il fatto che il croato è sempre e comunque fondamentale.

COME FA A SFIDARE IL TEMPO?

Purtroppo c’è da dire una cosa importante. Non sarà il nativo di Obrovac a sconfiggere il Padre Tempo e continuare a giocare all’infinito. Per il semplice fatto che questo è un avversario al quale, prima o poi, ogni mortale è costretto a piegarsi. E, infatti, anche a veder giocare Modric adesso, nel Real Madrid o nella Croazia, si può notare come il suo dominio tecnico e fisico nelle partite va via via affievolendosi.

Si deve purtroppo constatare come Modric non ha più la corsa, la resistenza, il fisico per poter illuminare ogni singolo momento della stagione. Il Padre Tempo, che gli ha dato la gloria, sta pian piano chiedendogli il conto, togliendogli la dinamicità dei giorni migliori. Ma è proprio qui che risiede l’immensa intelligenza di Modric. Anche lui ha capito che non può sconfiggere l’avanzare inesorabile dell’età. Ma grazie alle sue doti intellettive fuori dal comune ha anche capito come dilatare il più a lungo possibile i suoi giorni di maestosità.

Non riuscendo più a rendere al 100% sul lungo periodo, non gli resta che rimanere quasi dormiente, anche per lunghi tratti della partita e della stagione. Ma scegliendo accuratamente i momenti clou, in cui riversare, anche se per un periodo limitatissimo di tempo, tutta la sua classe. È così che nei big match della scorsa fase finale della Champions League o al Mondiale in Qatar, è risultato ancora una volta determinante. Mutuando un’espressione del basket NBA, Modric è diventato il giocatore clutch per eccellenza. Magari non sempre ai suoi massimi livelli in stagione, ma ingigantendo il peso specifico delle sue giocate in proporzione alla crucialità del momento.

È IL MIGLIOR CENTROCAMPISTA DI SEMPRE?

Che Modric sia già nel Pantheon dei grandi del calcio è un fatto assodato da tempo. Ciò che rimane da chiedersi è se non sia addirittura il migliore del suo ruolo in ogni epoca. Può sembrare un’affermazione forte, divisiva, ma probabilmente non lontanissima dalla verità.

Ovviamente, lungi da noi sbilanciarci in questo modo in suo favore, visto che, nella quasi totalità dei casi, è impossibile rispondere a certe domande. L’unico dato che possiamo analizzare è però questa sua abilità nel poter dilatare il tempo, che in pochissimi hanno avuto in passato. Parliamo di una ristrettissima élite di centrocampisti, come Iniesta, Pirlo, Xavi e Zidane. Probabilmente gli unici che hanno vinto quanto Modric in carriera e che hanno spinto il loro fisico nell’impresa di duellare con i limiti imposti dall’età.

Pirlo e Xavi, per esempio, hanno smesso di giocare ad altissimi livelli lo stesso giorno, dopo la finale di Champions League fra Barcellona e Juventus del 2015, rispettivamente a 36 e 35 anni. L’ultimo atto della carriera di Zizou è stata l’indimenticabile finale del Mondiale 2006 contro l’Italia, lasciando il calcio da trascinatore della sua nazionale a 36 anni. Iniesta (che comunque è ancora un giocatore del Vissel Kobe, in Giappone) lascia il Barça a 34 anni da Campione di Spagna. E poi c’è Luka Modric che, in realtà, sulla carta, ha solo un anno meno di Don Andres, ma che sa ancora regalare emozioni ai più alti livelli di questo sport. E lo farà anche l’anno prossimo, quando compirà 38 primavere. Almeno questo possiamo tranquillamente affermarlo: nessuno ha saputo duellare con il Padre Tempo più a lungo di lui.

 

 

 

 

 

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